La pandemia ci sta facendo provare sulla nostra pelle – e per “noi” intendo noi occidentali, noi Europei, noi del Nord del mondo – due cose che pensavamo non ci riguardassero e che di conseguenza non ci preoccupavano: la vulnerabilità alle epidemie e l’impossibilità di girare il mondo a nostro piacimento.
Le epidemie non sono normali malattie. Come ha scritto sagacemente Pier Giorgio Ardeni (Il Domani 6-1-2021) sono cose di altri paesi – chiamati educatamente “in via di sviluppo” – oltre che di altri tempi. Negli anni passati abbiamo letto di Ebola e della Sars come si legge una horror story: con un brivido di raccapriccio ma comodamente seduti nella poltrona del salotto.
Quando si è cominciato a parlare del covid in Italia, poco meno di un anno fa, mi trovavo in Tunisia dove un quotidiano titolava ironicamente: “Il virus covid 19 è troppo intelligente per installarsi in Tunisia” – sottinteso: paese così moderno e occidentalizzato! E pensavo che se in Tunisia la faccenda poteva essere oggetto di controversia in Italia non c’erano dubbi: non ci riguardava proprio. Me lo confermava mia figlia – per nulla negazionista e cento per cento pro-vax – che al mio ritorno aveva liquidato le mie domande con un: “Non ti preoccupare … è la solita influenza stagionale.”
Le epidemie sono talmente una cosa da poveri che ancora oggi facciamo fatica a trattare il covid 19 come una malattia sociale – come la tubercolosi o la malaria (malgrado certe sorprendenti analogie) – ovvero a produrre adeguate analisi degli aggregati socio-ambientali che ne favoriscono la diffusione, e ancora di più a pensare a modelli sociali che la ostacolino (spero che nessuno vorrà considerare il “distanziamento sociale” un modello per la società futura).
Eppure il covid ci ha raggiunto nelle nostre civili abitazioni come fossimo gli anonimi abitanti delle città alveari cinesi di cui nemmeno conosciamo il nome o quelli invisibili delle favelas brasiliane di cui non conosciamo i numeri, o degli sconfinati insediamenti pudicamente chiamati “informali” che rappresentano la maggioranza delle città africane. E questo fatto deve essere per noi talmente inaccettabile che a tutt’oggi pare impossibile fare statistiche approfondite che individuino una qualche correlazione tra concentrazione pandemica e variabili collegate ad aree con alti livelli di sviluppo, industrializzazione e benessere. Ci ha pensato invece la vox populi che parla di “virus della business class”. Eh già. Perché il virus viaggia sugli aerei e sull’alta velocità. Basta vedere come sono ridotti oggi aeroporti e stazioni: deserti spettrali.
Così il virus ci sta facendo sperimentare la seconda cosa da Terzo Mondo che pensavamo non ci riguardasse: l’impossibilità di spostarci sul globo tutt’intero a nostro piacimento.
Abbiamo riscoperto le frontiere quando le frontiere ci si sono chiuse in faccia. Prima – un anno fa! – anche le frontiere chiuse, come le malattie biblicamente chiamate flagelli, ci parevano roba di altri tempi. Roba da tempo di guerra, e noi di guerre in casa nostra non ne abbiamo più da settant’anni. In realtà le frontiere sono sempre state chiuse: ma non per noi abitanti del primo mondo, titolari dell’ambìto “passaporto Schengen” di cui la maggior parte di noi ha apprezzato i vantaggi senza accorgersi che la sua entrata in vigore innalzava intorno all’Europa una frontiera verso l’esterno più rigida di prima.
Non per noi, vasto ceto medio che si identificava a pieno titolo con le elite della globalizzazione la cui caratteristica principale, secondo il sociologo Zygmunt Bauman, era proprio la capacità di muoversi senza frontiere a differenza dei poveracci inchiodati al paesello. E che improvvisamente ci ritroviamo bloccati nel nostro salotto come i personaggi dell’alta borghesia nel film “L’angelo sterminatore” di Luis Bunuel. Respinti alle frontiere perché provenienti da stati in lista rossa, o obbligati a quarantene e arresti domiciliari.
Nel frattempo stiamo aspettando il vaccino come una bacchetta magica che rimetterà le cose al loro posto – cioè ricaccerà la pandemia laddove essa appartiene, al terzo mondo, e riaprirà le frontiere a noi rispettabili abitanti del primo mondo, ridiventati invulnerabili ai mali di quell’altro mondo. E ci succederà come ai protagonisti del film di Bunuel i quali appena liberati e baldanzosamente assembrati vengono colpiti nuovamente dall’angelo sterminatore.
Sarà il caso di pensare a dei modelli sociali (e non dei modelli di asocialità come quelli in cui ci troviamo oggi costretti) che alle pandemie globali ci rendano meno vulnerabili.