Strano come nel ricco dibattito intorno al conflitto Trump-social media nessuno si sia posto una domanda: Zuckerberg e Dorsey hanno silenziato Trump in quanto privato cittadino o in quanto presidente degli Stati Uniti?
Questa domanda credo nessuno se la ponga perché è venuta meno quella diffusa sensibilità istituzionale che in passato permetteva a chiunque di capire che Trump è al contempo un privato cittadino quando fa certe cose e una figura istituzionale quando ne fa altre. Eppure su questo tipo di distinzioni si è basata per secoli la nostra comune libertà sicché oggi, avendo la nostra cultura politica dimenticato da un pezzo l’arte delle distinzioni e anche quella delle convenzioni, è a rischio anche la nostra libertà.
Se Zuckerberg e Dorsey hanno escluso “the Donald” in quanto privato cittadino la loro azione ricade sotto il principio “We reserve the right to refuse service to anybody” (“Ci riserviamo il diritto di rifiutare i nostri servizi a chiunque”), un’insegna familiare per gli avventori di bar e ristoranti negli USA. In una delle scene finali del film “Il Gigante” è questo il cartello che il proprietario razzista di una tavola calda, dopo aver rifiutato l’accesso ad una famiglia messicana, getta con disprezzo su uno sconfitto Rock Hudson con il quale era venuto alle mani.
Mettere questo cartello di fronte a qualsiasi pubblico esercizio è ancora legale (su internet se ne trova un ricco assortimento). Ma le leggi federali anti-discriminazione oggi individuano una serie di criteri in base ai quali il servizio non può essere rifiutato: la razza, la nazionalità, la confessione, il sesso, l’età, la disabilità fisica. E’ vietato altresì rifiutarlo ai veterani militari e alle donne incinte (bellissima accoppiata, ricorda Sparta).
Alcuni stati, California in testa, aggiungono altre categorie protette, dai gay alle vittime di violenza domestica o stalking. Non poche, come si vede. Eppure a occhio Trump non ricade in nessuna di queste. Se al privato cittadino Donald Trump viene impedito di dialogare con i suoi followers ciò rientra nelle prerogative di un’azienda privata – come quelle le cui vessazioni subisco quotidianamente per accedere a servizi internet o di telefonia mobile di cui non posso fare a meno – anche se i followers sono 88 milioni. In fin dei conti c’è una nutrita schiera di influencer e celebrità varie che superano abbondantemente i cento milioni.
Se invece chiudendo i suoi account i due potenti oligopoli stanno impedendo al Presidente degli Stati Uniti di esercitare i suoi compiti – tra cui certamente rientra la comunicazione istituzionale – allora non ci resta che chiederci perché mai un presidente debba servirsi di mezzi privati con tutti quelli di cui dispone – o perlomeno di cui dovrebbe disporre – per far giungere i suoi messaggi non ai suoi followers ma all’intera nazione.
Che nessuno se lo chieda è significativo ma non sorprendente se da noi, nel nostro piccolo, Conte si affida alle dirette Facebook per comunicare a tutti gli italiani quelle cose per la quali una volta si ricorreva a interventi “a reti unificate”. Da molti anni ormai università, ministeri, enti pubblici si sono messe nelle mani delle aziende del mercato digitale con una sorprendete indifferenza alla dissoluzione di tutte le norme attinenti al pubblico servizio fino ad allora fatte applicare rigidamente da una fin troppo formalistica burocrazia pubblica.
Nel frattempo abbiamo assistito all’emergere di leadership carismatiche e demagogiche che preferiscono di gran lunga l’uso di strumenti personali – che si tratti di partiti, televisioni o profili su piattaforme digitali – a quello di strumenti istituzionali – organizzazioni partitiche strutturate, media del servizio pubblico, uffici di comunicazione istituzionale – anche quando non sono più in campagna elettorale ma stanno esercitando una funzione politica istituzionale, legittimata da elezioni e norme di diritto pubblico appunto.
Tutte cose in parte accettate di buon grado in parte subite controvoglia da un’opinione pubblica ora entusiasta ora recalcitrante ma comunque impotente che si è vista ingiungere da enti pubblici di mettersi nelle mani di fornitori privati per ottenere firme digitali, aprire account, scaricare app, visitare pagine facebook e via dicendo. Sicché lo stupore e l’inquietudine odierna manifestata dalle nostre parti per la vicenda Trump versus social è pari soltanto a quelli che hanno accompagnato la presunta scoperta delle fake news, la cui esistenza era da sempre tanto familiare alla pubblica opinione da essere designata con italianissime espressioni popolari quali quelle di “bufale” o “leggende metropolitane”.
La morale che se ne dovrebbe trarre – ma che nessuno trae – è che prima ancora di pensare a complesse normative di co-regolazione (perché poi quel “co”?) delle grandi piattaforme digitali, prima di decidere se sono editori o gestori, sarebbe (stato) opportuno evitare di consegnarsi ad esse mani e piedi legati. Compito delle istituzioni che ne hanno i mezzi ma che fino adesso hanno incoraggiato se non ingiunto ai cittadini proprio questo masochistico comportamento (e la tanto decantata società civile, dobbiamo aggiungere, non è stata da meno).
In un articolo uscito l’anno scorso su The Atlantic (aprile 2020) George Packer scriveva che ci era voluto l’arrivo di un leader come Trump per far emergere quante cose che all’America erano sempre parse “scolpite nella pietra dei monumenti” si sono rivelate dipendere dalle “fragili norme” della democrazia e quanto tali norme dipendessero dalla pubblica opinione.
Così Trump ha potuto distruggere una pubblica amministrazione che considerava nemica e che non ha saputo o voluto opporgli resistenza, ed è andato avanti per questa strada fino al momento in cui si è accorto che così facendo aveva segato il ramo su cui gli stesso – non come privato cittadino ma come legittimo presidente degli Stati Uniti – era seduto. Se gli sciagurati protagonisti dell’attacco a Capitol Hill non hanno trovato davanti a loro che forze dell’ordine deboli e disorganizzate, Trump il presidente non ha trovato uno straccio di baluardo istituzionale che impedisse ai potenti privati nelle cui mani si era messo di ridurlo al silenzio con uno sprezzante: “We reserve the right to refuse service to anybody”: