Nel 2015 la stampa internazionale l’aveva trasformato nell’Obama curdo, dal 2016 si trova in prigione in Turchia e rischia l’ergastolo. La parabola politica e personale di Selahattin Demirtaş – 47 anni, avvocato, ex leader del Partito democratico dei popoli (Hdp) – è molto più ampia di questo periodo invece ristretto: s’intreccia coi negoziati per il disarmo dell’organizzazione terroristica Pkk, per il pieno riconoscimento di diritti culturali ai cittadini turchi d’estrazione curda, per la piena democratizzazione della Turchia. Un percorso impervio, che aveva preso però la giusta direzione e che proprio tra il 2015 e il 2016 è stato sabotato in un modo che al momento sembra irreparabile.
Ma cos’ha fatto Demirtaş? Perché è in prigione? La sentenza emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo il 22 dicembre ha evidenziato storture e incongruenze nelle decisioni dei tribunali turchi, ha ravvisato una dimensione politica nei provvedimenti adottati, ha pertanto intimato la scarcerazione di Demirtaş. Una sentenza possibile perché il politico turco non ha ancora ricevuto una condanna riguardo i fatti più gravi peri quali è imputato, ma si trova in regime di carcerazione preventiva. Ankara ha però respinto la sentenza della corte con sede a Strasburgo e non l’applicherà; rivendica il diritto di perseguire chi è accusato di crimini legati al terrorismo.
Al di là dell’eventuale rilevanza penale di quanto contestato (i giudici turchi, per l’appunto, non hanno ancora avuto modo di esprimersi in modo definitivo), i comportamenti incriminati sono di pubblico dominio: nell’ottobre del 2014, mentre l’Isis assediava Kobane a maggioranza curda appena al di là del confine con la Siria, Demirtaş e altri esponenti del suo partito hanno invitato i cittadini curdi di Turchia a protestare, a scendere in strada. Quelle proteste, protrattesi dal 6 fino al 14 del mese, si sono trasformate in un bagno di sangue: altri curdi legati a forze politiche rivali – 31, in tutto – sono stati trucidati in modo brutale, praticamente linciati.
L’accusa, in sostanza, è che quelle proteste – l’obiettivo era di forzare la mano alla Turchia, per farla intervenire militarmente in Siria – sono state orchestrate in combutta con il Pkk, organizzazione terroristica di estrema sinistra di cui l’Hdp rappresenta una sorta di estensione politica. Al di là di legami organici, organizzazione e partito provengono dallo stesso movimento politico, sono imbevuti della stessa ideologia; lo stesso Demirtaş ha un fratello che è membro del Pkk.
Ma gli eventi del 2014 sono solo una piccola parte della storia. L’Hdp è nato nel 2012, da una fusione tra forze politiche specificamente curde e altre sempre della sinistra movimentista ma senza connotazione etnica. Dal 2013, è diventato partner del governo dell’allora governo Erdoğan per trovare una soluzione definitiva al conflitto con il Pkk – dopo le trattative fallite degli anni immediatamente precedenti – e superare sempre in modo strutturale le discriminazione dei cittadini curdi di Turchia. L’Hdp si era ritagliato un ruolo di delicata mediazione, insomma.
Gli incentivi presentati dall’Akp all’interno di un pacchetto di riforme democratiche, nell’ottobre 2013, hanno segnato una svolta storica: libero insegnamento in curdo nelle scuole private; libero ricorso al curdo e alle lingue di altre minoranze per i partiti politici; libero uso delle lettere Q, W e Z, contenute nell’alfabeto curdo ma non in quello turco (e in precedenza vietate); ripristino dei toponimi curdi soggetti in passato a “turchizzazione”; abolizione dell’inno/giuramento che esaltava la turchicità imposto agli studenti.
Lo strappo c’è però stato ancora prima delle rivolte per Kobane: quando Demirtaş si è candidato alle presidenziali dell’agosto 2014 e ha impostato la sua campagna elettorale contro Erdoğan. Un paradosso: da una parte il leader dell’Hdp trattava con Erdoğan premier per risolvere una volta per tutte il “problema curdo”, dall’altra attaccava con acrimonia Erdoğan candidato e lo trasformava in argomento principale e negativo dei suoi interventi. Questo passaggio non è mai stato ricostruito: perché trasformarsi in nemico dichiarato di quello che era al momento un partner prezioso, nel bel mezzo di un negoziato dall’impatto potenzialmente epocale?
Oltre alle rivolte dell’ottobre 2014, il terzo momento decisivo è stato il successo dell’Hdp alle elezioni politiche del 7 giugno 2015: perché l’Hdp, col 13,1% dei voti e 80 deputati su 550 (il parlamento turco è unicamerale), ha fatto perdere all’Akp la maggioranza assoluta. Un successo elettorale, ma insieme una catastrofe politica: il partito di Demirtaş ha finito col togliere potere al partito col quale ancora allora negoziava per la pace e per la democrazia; al partito che, più di ogni altro nella storia della Repubblica di Turchia, aveva fatto passi concreti in questa direzione.
In futuro, andrà chiarito anche questo dubbio: qual era il vero obiettivo dell’Hdp? Se era quello di raggiungere pace e democrazia, ha adottato un approccio suicida; d’altra parte, è anche possibile che l’obiettivo del partito filo-curdo – eterodiretto, dall’estero o dal Pkk – sia diventato in corso d’opera l’avvantaggiarsi del caos siriano per rilanciare velleità indipendentistiche o almeno di autonomia territoriale.
In un modo o in un’altro, quello che l’Hdp ha ottenuto è: fine del processo di pace, nuove ostilità nel sud-est a maggioranza curda con immensi danni materiali e vittime abbondanti, stretta sui diritti culturali della comunità curda in virtù dell’alleanza politica tra Akp e Mhp maturata nelle urne. Più che un nuovo Obama, Demirtaş si è dimostrato un apprendista stregone.