Giudizi sommari, quelli del giornalista napoletano: fondati non su di una conoscenza diretta del Paese, o comunque su studi specifici, ma su informazioni di seconda o terza mano che deformano la realtà.
L’ultima sua esibizione, quella in tv ospite da Fabio Fazio a Che tempo che fa, domenica 7 febbraio: la puntata con l’intervento di Barack Obama, che lo ha così relegato a un intervento di pochi minuti. Brevità forzata, che non gli ha impedito di snocciolare paragoni azzardati, mistificazioni arrembanti, ribaltamenti disinvolti della realtà. Disinformazione pura, senza alcun contraddittorio.
In realtà, Saviano ha iniziato e finito parlando di Patrick Zaki: lo studente egiziano dell’università di Bologna in carcere esattamente da un anno nel suo paese di origine, non si capisce bene per quali motivi concreti. Fin qui, tutto bene: al di là del caso Regeni ben conosciuto in Italia, il regime militare e golpista di al-Sisi ha soffocato nel sangue l’esperimento democratico avviato in Egitto con la defenestrazione di Mubarak e l’elezione di Mohamed Morsi, ha reintrodotto le pratiche autocratiche del passato. Merita di essere condannato, di essere contrastato con le armi della diplomazia.
Il passo ulteriore del giornalista/scrittore ha creato il corto circuito: e cioè, l’evocazione di una “guerra dei regimi contro gli studenti”. Regimi, al plurale: e l’altro – sono due in tutto – è per l’appunto quello turco. Già qui c’è da fermarsi e prendere fiato, magari scuotendo la testa: come si fa a inserire nella stessa categoria un leader golpista e un presidente che ha vinto elezioni in serie, certificate come democratiche da osservatori internazionali, dal 2002 al 2019?
Ma non c’è da stupirsi, purtroppo. Saviano, dopotutto, all’indomani del colpo di Stato del 15 luglio del 2016 si è dispiaciuto per la sconfitta del movimento gülenista che lo aveva organizzato: sulla sua pagina Facebook, ha fatto il tifo per i carri armati che schiacciavano i civili, per i soldati che sparavano sulla folla, per i jet che bombardavano il Parlamento. Sono morte oltre 250 persone, a Istanbul e ad Ankara: ma Saviano non ha mai chiesto scusa.
Stavolta, il pretesto per parlar male di Erdoğan sono le proteste all’università del Bosforo, contro la nomina di un nuovo rettore già candidato con il partito del presidente turco. Una protesta legittima, anche sensata: che è stata però strumentalizzata da gruppuscoli di estrema sinistra e da forze politiche di opposizione. Le richieste iniziali degli studenti – dimissioni del nuovo rettore, elezioni per una nuova nomina – hanno presto preso la forma di documento politico, di proclama contro il presidente turco.
Saviano ha tirato fuori il “presidente dittatore”, la “protesta non violenta e allegra”, “Bella Ciao” cantata dagli studenti; ma si è dimenticato di dire che i 159 studenti fermati – fermati, non “arrestati” – sono stati quasi tutti rilasciati, di precisare che la polizia è stata costretta a intervenire per far uscire il rettore dal rettorato messo per ore sotto assedio (non violenza, ma comunque prepotenza).
Ha espresso nostalgia per le proteste di Gezi del 2013, inventadosi un “bagno di sangue” – da parte delle forze dell’ordine – che non c’è mai stato. E ha giustificato un’azione in apparenza innocua, che è stata però giudicata blasfema da ampi settori dell’opinione pubblica turca: una riproduzione artistica della Kaba sui cui minareti spiccavano le bandiere arcobaleno del movimento LGBT.
È difficile accertare la volontà del gesto, se offensiva o provocatoria; forse anche le forze politiche di maggioranza, a loro volta, hanno colto l’occasione per strumentalizzare. In ogni caso, gli arresti e le incriminazioni formali appaiono come oggettivamente esagerate: ma da qui a parlare di “regime” e di “dittatura”, ce ne corre.
Soprattutto, l’idea di una università che vuole essere libera da ingerenze politiche è ingenuamente sbagliata. Ciò che l’università non vuole è l’ingerenza di alcuni gruppi politici e non di altri: l’islam politico non è ben accetto, mentre per l’appunto trovano terreno fertile posizioni radicali, in casi estremi ma non infrequenti addirittura di sostegno all’organizzazione terroristica Pkk e al movimento politico che vi fa capo.
Dopotutto, anche se in origine era un college americano, dal 1971 l’università del Bosforo è pienamente statale, anche riguardo il budget: e pretendere che le leggi dello Stato non abbiano valore e vigore nel campus – un posto panoramico, immerso nel verde – è sintomo di sfacciata arroganza.
Saviano, infine, non ha perso l’occasione per ricordare come Erdoğan abbia “represso prontamente” il golpe fallito del 2016: e per quale motivo non avrebbe dovuto reprimerlo? Come sempre, ha tirato in ballo intellettuali e giornalisti in carcere o in esilio (latitanti, in effetti): che costoro fossero membri dell’organizzazione golpista – gestiva direttamente scuole, università, quotidiani, tv, case editrici – evidentemente non conta (fatti salvi casi individuali, ovviamente).
Ma si sa: dividere il mondo in “buoni” e “cattivi” è uno strumento consolidato ed efficace della propaganda. Il perché Saviano si presti a farsi alfiere della propaganda anti-turca rimane però un mistero.