Ormai è certo: il nostro è un paese da favola, dove le cose accadono come letterale magia. Non c’è alcun bisogno di rivoluzioni, colpi di stato o addirittura elezioni per cambiare l’organigramma del potere. I governi si succedono agili e flessibili, al passo delle stagioni.
Arriva un’emergenza sanitaria accompagnata da una vertiginosa restrizione delle libertà personali, e ci si ritrova un illustre avvocato a difendere le ragioni dello Stato. Soldi cadono come pioggia dalle nubi un tempo fosche dell’Unione Europea e spunta il migliore dei nostri banchieri a farci da presidente. Che il malaugurio ci consegni una guerra e subito un alto generale sarebbe lesto a trasformare il comando in consiglio.
Il tutto senza spargimento di sangue o di carta elettorale. Pensate invece allo sfiancarsi di tutte quelle democrazie, perdute tra i protocolli dell’ufficialità, dove i governi assecondano la durata delle legislature per far finta che il popolo decida qualcosa, coi loro capi costretti a rivestire i diversi ruoli offerti dalla contingenza del momento. Quale noia e decadimento! Oppure a quei popoli perennemente in lotta che inseguono ideali e seminano morti, per poi finire costretti a spiare l’ideale soffocato dalle braccia dell’istituzione. Che vano spreco di illusione e dolore!
Noi per fortuna restiamo fedeli all’origine delle parole; così gli eletti quasi mai vengono scelti dal basso, dal sottosuolo del popolo votante, ma cadono dall’alto, dal misterioso cielo del potere e della finanza. L’autentica origine dell’elezione! È gli eventi allora si svelano così letterali da tramutarsi in allegorie:
C’era una volta un Cavaliere, così innamorato del suo sogno che credeva di poter trasformare la bellezza del suo castello nello specchio del reame. Figlio di una duplice elezione, proveniente da occulte altezze e manifeste bassezze, perseguì il potere nello slancio della sua pura erezione. Tra l’ebrezza delle imprese e il fragore delle cadute il decadimento sopraggiunse anche per lui, lasciandolo sommerso dall’eco di fantasmi giovanili, circondato dai morsi canini della solitudine e perennemente affacciato di fronte al proprio mausoleo funebre, eretto in vita per penetrare la morte.
La sua decadenza non conobbe autentica sostituzione. Dopo aver abbandonato valori e ideali, il popolo intristito fu costretto a rinunciare anche all’immaginario. Qualche funzionario dal volto austero, un feroce grillo parlante e un giovane ratto parolaio occuparono la scena finché il castello non venne occupato da uno sconosciuto Conte.
Non si può dire che la fortuna sedette al fianco del nostro nobile, perché una peste, dal sapore antico e dalla faccia postmoderna, si abbatté sul suo reame. Lui però non si scompose e si trincerò dietro un eloquio monocorde, a tratti elegante che tra tanta verbosa volgarità tornò ad entusiasmare il popolo. Le donne se ne innamorarono, gli uomini lo presero a ben volere, così fu ribattezzato l’avvocato del popolo.
Con strana ironia a dire il vero: perché le leggi difendevano l’autorità dello Stato e limitavano sempre più le libertà individuali. Ma i più si sentirono protetti dalla voce di un amante e di un padre mai avuti. Le cose sembravano volgere al meglio; le nubi pestifere andavano diradandosi e il denaro con tanta fatica e abilità ottenuto da mani straniere, poteva finalmente esser speso. Il Conte pregustava già la ricostruzione del suo reame, quando all’improvviso il ratto parolaio tornò sulla scena.
Orfano dello sguardo popolare e fuggito dai più a causa del suo ghigno bavoso, il ratto continuò a muoversi nel sottobosco del potere. È così che tra le pieghe di una trama fognaria fu proprio lui a farsi esca per tendere una trappola al Conte, che inciampò e troppo si attardò sulla via del ritorno. Il castello restò vuoto per alcuni giorni, così come l’udito del popolo, privato delle parole del suo avvocato.
Nel frattempo anche il grillo parlante si fece sempre più taciturno e restò soltanto una stanca speranza, che però come tutti sanno, è una malattia da cui è impossibile vaccinarsi. In un tale silenzio un’unica voce si sentì, quella del piccolo e anziano matto del villaggio, alle cui frasi retoriche e tautologiche di norma nessuno prestava ascolto.
Questa volta tutti, invece di cambiar strada o addormentarsi, si aggrapparono alle parole del mattarello, che si tramutarono in verità e consegnarono le chiavi del castello ai temuti Draghi; professionisti autorevoli e famelici, che da molto tempo ormai sapevano che il potere, quello vero, è scritto dalle leggi economiche e non da quelle politiche.
E qui avvenne uno strano incantesimo. Tutti i nemici, da sempre in lotta e gelosi di ogni invasione tecnica, si allearono e si innamorarono del nuovo sovrano. Magnete dei soldi, logica della trama, paura dell’elezione, stupefacente senso di responsabilità? Fatto sta che il Cavaliere scorse un’inattesa erezione senile di potere, il grillo parlante restò ammaliato dalla melodia dell’eco digitale con cui poter finalmente toccare l’utopia di un mondo disincarnato, il ratto si immobilizzò nell’estasi leccandosi i baffi al cospetto del futuro glorioso riconoscimento, i nordici non videro l’ora di avere il dané tra le mani per costruire e lavorare, gli appena mancini, invece di inseguire un talento che non hanno, almeno conservarono staticamente la propria parte d’influenza.
Anche il Conte accettò il tradimento e brindò al successore, restando monocorde e garbato, al punto da far venire il sospetto di un latente autismo. Perfino il popolo che nulla aveva scelto di una tale situazione, si riscoprì contento e fiducioso di fronte a cotanta eletta autorevolezza. Ancora una volta quel piccolo paese, antico e provinciale, è stato capace di anticipare e incarnare la storia circostante.
Così col lieto finale la fiaba pare volgere al termine ma un ultimo passo resta ancora da compiere per raggiungere la perfezione: vedere il Cavaliere seduto sul trono della Repubblica, un ultimo segno dell’elezione, la natura divina del potere.