Prima i fatti. La Turchia sta conducendo delle operazioni anti-terrorismo in Iraq settentrionale, nel territorio della Regione autonoma del Curdistan; in questo contesto, il 10 febbraio, ha tentato di liberare 13 suoi cittadini – quasi tutti soldati – da alcuni anni prigionieri del Pkk curdo. I terroristi, messi alle strette, li hanno però giustiziati a sangue freddo.
L’annuncio ufficiale, domenica 14, ha scatenato nel Paese un’ondata di commozione e di rabbia. Sono seguite le immancabili polemiche e strumentalizzazioni politiche, un rimpallo di responsabilità senza esclusione di colpi che ha coinvolto – e rischia di travolgere definitivamente – l’Hdp che del Pkk è sostanzialmente la vetrina politica, alleato tacito ma numericamente indispensabile delle altre opposizioni anti-Erdoğan.
Dal 2015, con la fine del processo di pace tra governo ed Hdp-Pkk, la dialettica politica turca è esplosa in un crescendo di conflittualità: che gli attacchi terroristici a Istanbul e Ankara, il golpe del 15 luglio 2016, l’intervento militare in Siria, le elezioni amministrative del 2019 con il successo nelle grandi città delle opposizioni unite (l’Hdp lo ha determinato non presentando propri candidati), hanno portato via via a livelli sempre più insostenibili d’intensità.
Commozione, rabbia e polemiche non sono però rimaste all’interno, ma hanno tracimato sul piano internazionale. I media globali hanno sostanzialmente taciuto, le condanne sono arrivate a mezza bocca e con distinguo, nessuno è corso a gridare “Je suis Turchia” o a esibire bandiere turche sui social. Insomma, al posto della solidarietà che ha cementato il mondo in casi analoghi, i turchi hanno ricevuto silenzio e indifferenza.
Sulla stampa italiana, ad esempio, non è apparso praticamente nulla: due articoletti stringati e tiepidi sul Sole 24 Ore e su Repubblica, un intervento articolato sul Manifesto che per comunanza ideologica riprende con pari dignità le posizioni del Pkk. Questa mancanza d’interesse stride con la messe articoli comparsi nelle ultime due settimane sulla protesta studentesca in una università di Istanbul (divergenze di vedute col governo sulla nomina del nuovo rettore), poi cavalcata in diretta tv da Roberto Saviano. Ci si può chiedere: se fossero stati uccisi con un colpo in testa 13 soldati francesi o americani o britannici prigionieri di un gruppo jihadista, la copertura sarebbe stata la stessa?
Poi ci sono le condoglianze ufficiali: tutte tiepide, se non reticenti. L’ambasciata francese ad Ankara, ad esempio, ha parlato in un messaggio su twitter di “morte” senza specificare le modalità e soprattutto senza dare un nome ai carnefici; anche l’ambasciata italiana, con analogo mezzo di comunicazione, ha parlato sì di “terrore” ma ha tralasciato di identificare i terroristi. Solo la delegazione dell’Ue in Turchia si è pronunciata in modo chiaro e inequivocabile: “attacco terroristico”, “il Pkk [che] ha ucciso 13 cittadini turchi”.
A mandare Erdoğan e la Turchia (quasi) intera su tutte le furie è stato comunque Ned Price, portavoce del Dipartimento di Stato nella nuova amministrazione Biden, che nel comunicato di condoglianze ha subordinato la condanna del Pkk a una successiva conferma delle informazioni sulla loro responsabilità. Il punto è che le informazioni su vittime e aguzzini erano già state date pubblicamente dal ministro della Difesa, Hulusi Akar: chiedere ulteriori riscontri è apparso a tutti uno sgarbo diplomatico contro un alleato, di cui è stata messa in dubbio la buona fede.
Il ministero degli Esteri turco ha immediatamente convocato l’ambasciatore americano, è dovuto intervenire direttamente il segretario di Stato Antony Blinken che ha accettato la colpevolezza del Pkk in una telefonata – una sintesi è stata poi resa pubblica – con l’omologo turco Mevlüt Çavuşoğlu, senza richieste di ulteriori elementi di valutazione. Il sostegno degli Usa al Ypg siriano – parte integrante del Pkk – rimane però l’ostacolo principale per una completa ripresa della cooperazione sia politica sia militare con la Turchia: il presidente Erdoğan non tollera intralci nella lotta al terrorismo, a maggior ragione se vengono creati da un alleato.