Eppure ci aveva creduto il pentastellato. Trasparenza, reddito universale, democrazia diretta, ecologia, rete digitale. Cinque, quattro, tre, due, una stella implicita nel loro cielo ideale a sfumare a poco a poco sotto la nebbia del potere governativo, lasciando netta un’unica evidenza: si credono un movimento popolare ma sono l’unico partito veramente retto da un autentico leader carismatico.
Inneggiano alla democrazia diretta fingendo o ignorando di non sapere che qualunque democrazia è in sostanza eterodiretta. Il loro vaccino rappresentativo è costituito da una piattaforma digitale, trasformata in una sorta di costante referendum, infinitamente distante dalla soglia di un ideale quorum, dove i pochi votanti godono nel sentirsi partecipi ma in sostanza non fanno altro che assecondare la direzione scelta dall’alto.
Con commovente slancio e ideale orgoglio l’hanno dedicata a Rousseau per unire il lume della ragione con il led del digitale, ignorando una sostanziale e ironica affinità: con le parole si inneggia alla fratellanza e all’uguaglianza, con le azioni si resta autoritari e subdoli, come il geniale pensatore durante tutta la sua vita, capace però non di spostare frasi fatte, ma muovere autentico pensiero.
Eppure quella del pentastellato era diventata un’identità, perfino un carattere, una maschera sociale facilmente riconoscibile tra le altre. Il volto teso e nervoso di chi si prende sul serio e non accetta compromessi. Un umorismo privo di ironia per poter credere a un comico diventato predicatore. Un certo snobismo di chi si sente in una nuova èra mentre tutt’intorno gli altri si fanno guidare da principi ormai antiquati. La superbia di chi crede in valori superiori ed oggettivi come l’ecologia o l’uguaglianza, così giusti e trasparenti da esser invisibili ai più.
E poi il tratto fondamentale: il rancore. Appunto non la rabbia, ma il rancore, che tra i due scorre una sostanziale differenza. La rabbia è un anticipo di violenza che quasi sempre conduce ad un agire irrazionale; il rancore è un sentimento autoreferenziale, molto vicino al livore. Ed è proprio dal rancore che tutto è nato; quando si è trasformato da un sentimento tutt’interno di esclusione in un’esperienza di collettiva condivisione.
Intorno al mantra del vaffanculo il pentastellato conosceva una personale catarsi, si dava forza, riusciva a trasformare l’emarginazione in orgoglio. Poi tornava stanco e soddisfatto dalla piazza, si connetteva e si lasciava guidare felice in un percorso tutto selezionato di controinformazione. Il rancore allora si cristallizzava intorno ad una geometria di parole che sapeva di verità. Arrivarono le elezioni e alcuni provarono l’ebrezza di passare dall’altra parte della rappresentazione democratica, mentre i più si trastullavano nel vedere l’uomo qualunque al fianco degli odiati rappresentanti del potere politico.
Il rancore ormai era un ricordo, sostituito da una piacevole sensazione di onnipotenza, culminata nella pornografia dello streaming politico. Grazie alle potenzialità dei mezzi tecnologici a disposizione riuscirono a cogliere il loro supremo oggetto del desiderio: assistere a quel che da sempre gli era stato precluso, ai dialoghi dietro le quinte del potere. Allora addio alla “scatola nera dentro la gobba di Andreotti”, ai segreti di Stato, a tutta quella faticosa confusione tra le versioni ufficiali e quelle ufficiose della nostra storia politica.
Ormai ogni cosa poteva esser finalmente controllata e votata. Era tutto così bello da sembrare un sogno, anche perché non dimentichiamoci che la mancanza d’ironia sposata con la presenza di superbia impediva al pensiero pentastellato di supporre che nel frattempo fosse avvenuto un ribaltamento tra scena e quinte, cosicché il teatro politico, quello vero, continuava ad esistere, scorrendo sempre al di là dello sguardo voyeuristico.
E soprattutto al pentastellato era sfuggito un dettaglio, se vogliamo universale. A passare dalla piazza reale a quella virtuale e infine all’aula parlamentare si rischia sempre la stessa cosa: l’istituzionalizzazione del movimento. Una cosa che non avrebbe dovuto sfuggire a qualche suo esponente, appassionato di dinamiche sudamericane, per poter leggere il comune destino tra le diverse storie rivoluzionarie finite male o tra le righe del nome del principale partito messicano che da decenni è al potere con plurime vicende di corruzione alle spalle: il geniale PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale).
Anche se le vere rivoluzioni si son fatte spostando la rabbia, mentre quelle istituzionali si fanno muovendo solo il rancore, cosa resta oggi della parabola pentastellata? Una stella, la transizione eco-digitale, una piattaforma, non petrolifera ma digitale, e soprattutto un capo carismatico. Mentre gli eletti sono seduti a tavola coi nemici di sempre, quando arriva l’impervio momento della scelta, il loro Rousseau esce dallo stato di natura digitale, si fa corpo, prova a riconciliare le idee che divergono, prende per mano i suoi allievi fedeli e scomunica gli infedeli.
Attraverso la finzione della connessione il grande educatore decide per tutti e il movimento resiste, ritrovando la sua stasi. Ma come tutti sanno, nel momento in cui rinuncia alla sua essenza dinamica ogni movimento è destinato a una lenta morte, che consegnerà man mano i suoi esponenti di spicco tra le fauci dei nemici di un tempo, verso i quali anche se non scocca un vero e proprio amore, di certo non si prova più il vecchio rancore.