La tragica morte dell’ambasciatore Attanasio va in qualche modo aldilà del dolore di una famiglia, del cordoglio di un paese e del tributo istituzionale espressi in questi giorni. Essa apre una serie di questioni che da tempo covano sotto la cenere nel nostro paese. Se si riuscirà a discuterne nel migliore dei modi da questo lutto sarà scaturito un bene e sarà un omaggio alle vittime.
Affrontare tali questioni non può essere presentato come un atto che sfrutta strumentalmente il dolore altrui così come le espressioni di umana compassione ed empatia che tutti condividiamo non possono essere usate strumentalmente e in modo divisivo contrapponendo la gente perbene che ha cuore e sentimento (ed è al passo con i tempi) e i soliti oscurantisti che perseguono chissà quali abietti fini.
Chi vive ogni giorno la vita delle moschee – ma possiamo dire chi vive ogni giorno una vita di fede – sa che una conversione non è mai una passeggiata ma un processo pieno di dubbi e interrogativi e anche di problemi e dilemmi pratici che precedono l’atto formale il quale, secondo il credo di una confessione, fa entrare in quella fede che non può che essere, per il credente, l’unica vera. E non è dato sapere cosa succede nel cuore di chi compie quell’atto – tanto più che ogni cuore umano è unico – ma è molto difficile pensare che non succeda assolutamente nulla.
E chi osserva nel quotidiano le innumerevoli vite matrimoniali e familiari di cui è fatta la nostra società sa che le unioni felici sono altrettanto diverse tra di loro quanto quelle infelici, e sono portatrici anch’esse di interrogativi e prove che non possono che essere ancora più grandi se tali unioni si basano sulla fede – figuriamoci quindi se vi sono due fedi diverse.
Ecco perché non è fuori luogo affrontare – in occasione di un dramma che ha attirato l’attenzione e suscitato le emozioni di una larga parte della società – questioni come quelle delle conversioni e dei matrimoni misti in un paese nel quale il pluralismo religioso è tanto recente quanto dirompente e nel quale – pur tenendo conto della presenza di confessioni assai più antiche e radicate in Italia – è l’islam ad avere un ruolo da protagonista, in termini quantitativi e in termini di discorso pubblico.
Ed ecco perché è improprio e anche sorprendente voler ridurre la dimensione religiosa dell’evento da cui tali interrogativi sono scaturiti ad un “fatto privato”.
Improprio perché i puri fatti – il moltiplicarsi di testimonianze di uomini di Chiesa e semplici cattolici, i funerali di stato con il rito cattolico alla presenza delle massime autorità istituzionali, il funerale privato officiato dal vescovo di Milano – stanno a dimostrare che oltre al fatto privato vi è quello collettivo e comunitario. Sorprendente quando tale riduzionismo viene espresso da una delle principali organizzazioni delle comunità islamiche in Italia, l’Ucoii, da tempo impegnata in un percorso negoziale con il Ministro degli Interni volto ad ottenere una “Intesa” con lo stato italiano, vale a dire un atto giuridico che disciplina tra le altre cose anche questioni quali i matrimoni e le sepolture.
Che nella scelta religiosa dell’individuo, così come nella vita religiosa di una coppia o di una famiglia vi sia una dimensione intima – termine che meglio di “personale” rende l’idea – nessuno lo mette in dubbio così come nessuno mette in dubbio che essa vada rispettata e vada lasciato alla libera scelta di ciascuno ciò che di essa intende rivelare e condividere. Ma negare che il fatto religioso abbia anche una dimensione collettiva è semplicemente negare ciò che sta sotto gli occhi di tutti e che è cosa ovvia non soltanto per i musulmani ma per la maggior parte dei fedeli di tutto il mondo oltre che per tutti gli studiosi di scienze sociali:
Come assicurare una presenza del fatto religioso in armonia con le libertà individuali e associative in una società pluralista e secolarizzata è un problema che oggi ci riguarda tutti, come cittadini, come credenti e come non credenti. E il primo passo per affrontarlo è quello di migliorare il più possibile la conoscenza di tutti della propria fede come delle fedi altrui. Ciò non può che giovare all’intera società poiché la conoscenza è sempre benefica e se ciascuno conoscesse bene la propria religione la qualità del discorso pubblico già per questo sarebbe migliore.
Ora non è certo una scoperta di oggi il fatto che la grande maggioranza degli italiani, che si proclama cattolica, soffra di “analfabetismo religioso”: basta citare in proposito ricerche come quelle di Franco Garelli e Alberto Melloni. Poco o niente ci è noto, invece, riguardo alla conoscenza dei princìpi basilari dell’islam tra i musulmani, italiani e non, residenti in Italia. Le comunità non dispongono di sufficienti mezzi finanziari e posizioni accademici per avviare ricerche in materia al proprio interno e sono quindi perlopiù oggetto di ricerche promosse fuori da esse e interessate a tutt’altro. Tuttavia una serie di dati secondari tendono a confermare che anche nelle nostre comunità vi è una diffusa ignoranza sia degli articoli di fede sia degli obblighi dei credenti.
La ricerca della conoscenza, per i musulmani, è un obbligo sia individuale sia collettivo e coloro ai quali Dio ha donato la scienza hanno la responsabilità della sua trasmissione. Sicché quando viene sollevata pubblicamente una questione – tutt’altro che inedita – attinente ad un caso di conversione la discussione non può che partire da una domanda semplice e basilare: “Chi è musulmano?” A questa domanda, in seno all’islam tutto, si dà una sola risposta: è musulmano colui che ha pronunciato senza costrizione e con piena convinzione le due attestazioni di fede: “Testimonio che non c’è altro dio se non Dio, e testimonio che Muhammed è il messaggero di Dio”. Tale atto si chiama shahada che significa appunto testimonianza e non indica una non meglio precisata “dimostrazione di conversione” né la partecipazione “a qualche rito islamico”: è l’atto con il quale si diventa musulmani ed è il primo dei cinque pilastri dell’islam.
Certo, la sincerità d’intento è fondamentale ma “ciò che racchiude il cuore è una questione tra l’individuo e il suo Signore”. Se la shahada è stata pronunciata pubblicamente, come premessa ad un matrimonio, metterne in dubbio la sincerità è un atto grave e riprovevole che la maggior parte dei musulmani condanna. Come spiega Awatef, una docente tunisina (ha insegnato per anni alla celebre “Bourguiba School” che forma arabisti provenienti da tutto il mondo): “Se uno ha fatto shahada deve essere considerato musulmano finché non fa esplicita ritrattazione … Non importa come vive, o se frequenta altri riti. Forse che la Tunisia non è piena di musulmani che mangiano maiale, bevono vino, non pregano e non digiunano? Su di loro noi facciamo egualmente la preghiera funebre. Coloro che vogliono rifiutargliela, che vogliono decidere chi è musulmano e chi no in base al modo in cui vive, quelli sono gli estremisti radicali!”
Per i musulmani pronunciare la shahada non può mai essere un atto puramente formale – proprio come non lo sono i sacramenti per i cristiani – anche se fatto solo “per via delle regole che disciplinano il matrimonio con un musulmana marocchina” (se si trattasse di una donna diremmo semplicemente “se fatto per amore”).
Dalla shahada derivano degli obblighi non solo per l’individuo (come ad esempio la preghiera cinque volte al giorno) ma anche per la collettività come quello di assicurare adeguata sepoltura. E se nessuno deve giudicare dell’adempimento degli obblighi individuali, l’intera collettività deve invece farsi carico di quelli collettivi – anche se è sufficiente che ad essi provvedano solo alcuni membri – poiché se uno di questi obblighi non viene adempiuto tutti noi saremo chiamati a risponderne.
Stupisce allora che alcuni leader riconosciuti di comunità musulmane, cui Dio ha fatto il dono di sapienza e conoscenza, si prestino a lasciar intendere, con parole contorte che generano confusione, che è possibile fare shahada senza che ciò comporti conseguenza alcuna per colui che la pronuncia e per la comunità che di essa viene informata. Informazione, peraltro, che nel caso dell’ambasciatore Attanasio non è altro che la risposta alla domanda che molti si sono posti appena letto il nome di Zakia Seddiki – nome arabo, nome di una donna presumibilmente musulmana, cosa che “Avvenire” conferma due giorni dopo. Che non si tratti di morbosa curiosità né di intrusione indebita nella sfera intima lo dimostra ancora una volta tutta la vicenda.
Vicenda dalla quale, allora, è più che naturale che la riflessione si allarghi alla seconda grande questione che nella nostra società è già molto presente, quella dei cosiddetti matrimoni misti, in grande aumento sia nel nostro paese sia tra gli italiani che li contraggono all’estero. Ancora una volta, nelle moschee come nelle parrocchie vi è piena consapevolezza dei problemi legati a queste unioni a prescindere dal vissuto delle singole coppie. E basta – anche a chi non è specialista in diritto canonico o scienze shariatiche – una breve navigazione sull’argomento tra siti parrocchiali e diocesani, siti di moschee e associazioni musulmane dall’altro, per farsi un’idea non solo della complessità della disciplina ma di come nel tempo si sia andata evolvendo da ambedue le parti adattandosi ai grandi mutamenti sociali della nostra epoca.
Proprio per questo, per quanto riguarda la parte cattolica, non credo giovi allo sviluppo positivo del dialogo interreligioso trarre vantaggio dalla propria posizione istituzionale dominante per negare validità a ciò che per la parte musulmana è articolo di fede e atto fondamentale, trasmettendo un messaggio di totale irrilevanza della fede di uno dei coniugi nonché delle leggi del suo paese che a tale matrimonio hanno riconosciuto piena validità. Ed è anche sconcertante, agli occhi di un credente musulmano sincero, il messaggio che gli giunge secondo cui per un cristiano testimoniare un’altra fede può essere atto irrilevante.
Per quanto riguarda la parte musulmana forse i tempi sono maturi per una riflessione sulle leggi che in diversi paesi islamici subordinano la validità del matrimonio della donna musulmana alla fede islamica del marito. Lo stesso requisito non sussiste nel caso del matrimonio di un musulmano con una donna della Gente del Libro (cristiana o ebrea) e un malinteso femminismo ha fatto sì che l’attenzione si focalizzasse su questa asimmetria. In verità il problema sta piuttosto nelle conseguenze di questa legge che – originariamente destinata, in una società patriarcale, a proteggere la donna da pressioni alla conversione da parte del marito o della sua famiglia – in un contesto mondiale secolarizzato può ridurre l’attestato di conversione e i requisiti per ottenerlo a una mera pratica burocratica o percepita come tale. Tale messaggio è talvolta inconsapevolmente trasmesso anche da diversi siti di moschee e associazioni islamiche nel loro sforzo di dar risposta agli interrogativi e i bisogni di coppie miste desiderose di contrarre matrimonio.
Ma soprattutto i tempi sono maturi perché ambedue le parti – in una prospettiva reale di dialogo interreligioso e non di semplici rapporti interconfessionali – diano avvio ad una riflessione su tutte le implicazioni delle unioni miste. Implicazioni pesanti, ancora di più se ambedue i coniugi sono profondamente radicati nella loro fede, e cruciali in materia di educazione dei figli. Limitarsi, in questa prospettiva, ad un bonario “Dov’è il problema?” non protegge queste coppie e queste famiglie, ancora di meno quando un evento tragico si abbatte su di esse all’improvviso.
Per quanto dobbiamo cercare di affrontare questa discussione nel grande rispetto per il dolore delle famiglie, nella grande ammirazione per tutto ciò che ha fatto lo scomparso, di questo non possiamo tacere. Un matrimonio misto è l’unione di due religioni, rimuoverne una produce – come ogni rimozione – danni all’anima. Dall’incontro di due religioni nella stessa famiglia può anche sorgere un gran bene ma non se – al momento in cui tale incontro viene messo alla prova da circostanze straordinarie – ci si rifugia nel diniego, nel riduzionismo, nella disinformazione o nelle battute velenose, tutte cose purtroppo di cui i media hanno fatto ampio uso in questi giorni.
Dopo i funerali di Stato, dopo quelli nel comune di nascita dell’ambasciatore Attanasio con il vescovo e la schiera impressionante di fasce tricolori di decine e decine di sindaci lombardi, al momento della sepoltura un imam davanti alla moglie e ad un piccolo drappello di musulmani ha recitato su di lui l’orazione funebre. Colpisce il contrasto tra le due cerimonie e forse serve a far capire meglio cosa è l’islam. Confrontato al clamore di chi accusa o al silenzio di chi nega, il musulmano si limita a dire che nessuno può mettersi tra l’uomo e il suo Signore. Svolgerà la preghiera funebre secondo il rito prescritto e su di lui come sul più piccolo dei fratelli pronuncerà l’invocazione “Allah Yarhamhu” – “Dio abbia misericordia di lui”.