La Turchia ha ripreso ufficialmente il suo tormentato percorso riformista. Recep Tayyip Erdoğan, nella cornice solenne dell’auditorium del palazzo presidenziale di Ankara, per un’ora intera ha illustrato i principi ispiratori, le principali misure e gli obiettivi finali del nuovo “Piano d’azione per i diritti umani”.
Consiste di 11 principi, 9 aree, 50 traguardi, 393 azioni specifiche: un documento di 134 pagine pubblicato integralmente sul sito del ministero della Giustizia. Sia questo documento sia il discorso di Erdoğan sono stati immediatamente apparsi anche in traduzione inglese: così da rimarcare la dimensione volutamente anche internazionale dell’iniziativa, di una Turchia spesso accusata – con delle ragioni, ma anche con delle esagerazioni – di deficit strutturali nel rispetto degli standard soprattutto europei per i diritti umani.
Non è possibile entrare nei dettagli delle misure proposte. I principali capisaldi sono comunque riassunti dallo slogan “Individui liberi, società forte, Turchia più democratica”: che in pratica dovrà tradursi in processi più rapidi (anche grazie all’introduzione delle nuove tecnologie), nella rinuncia dove possibile del ricorso alla carcerazione preventiva, nell’allentamento della legislazione sui reati d’opinione, in maggior decisione nel reprimere la violenza contro le donne.
Verranno rinnovate – per renderle più snelle – le norme sulle fondazioni che appartengono alle minoranze non musulmane e che gestiscono un ricco patrimonio immobiliare. Un’ulteriore innovazione che ha colpito tutti: le vacanze scolastiche per i non musulmani, in base al calendario religioso di ogni comunità. In ogni caso, ci vorranno due anni per l’adozione di queste misure, in base a un calendario dettagliato che verrà reso noto entro due settimane; ogni anno verrà poi preparato un rapporto sulla loro effettiva applicazione nel tempo.
Non si deve però pensare che il piano d’azione sia una trovata strumentale, propagandistica: promesse estorte da pressioni esterne, che poi verranno difficilmente mantenute. La Turchia cerca sì di riabilitarsi agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, cerca sì di riallacciare i legami con l’Europa e di rilanciare il percorso di adesione all’Ue: ma lo fa secondo un disegno di lungo periodo, riprendendo un percorso interrottosi più volte in modo traumatico.
L’Akp, il Partito della giustizia e dello sviluppo, ha conquistato per la prima volta la maggioranza parlamentare – nel 2002 – proprio in virtù di un programma riformista che tendeva a liberarsi del retaggio autoritario della costituzione imposta dai militari nel 1982: un programma – più diritti, più libertà, più pluralismo – subito applicato anche per conquistare l’avvio dei negoziati di adesione con Bruxelles.
Il percorso riformista ha subito degli stop traumatici in virtù di di fattori sia interni sia esterni. Gli esempi salienti: il tentativo dell’opposizione kemalista e dei militari d’impedire all’Akp di eleggere Abdullah Gül alla presidenza o addirittura la procedura per scogliere il partito (2007-2008), le rivolte violente di Gezi (2013), le ondate di attacchi terroristici dell’Isis e del Pkk (2014-2015), le attività eversive dei gülenisti poi culminate con il golpe del 15 luglio 2016.
Il rilancio del 2021 si basa su due pilastri fondamentali e ha un obiettivo finale. Il primo pilastro è il piano d’azione sui diritti umani appena presentato, il secondo è quello in arrivo delle riforme economiche necessarie a dare alla Turchia stabilità finanziaria e ad attrarre in Turchia investimenti esteri. L’obiettivo dichiarato è invece una nuova costituzione che rimpiazzi completamente quella del 1982, da scrivere ex novo entro il 2023 (quando la Repubblica festeggerà il suo primo centenario).
Anche in questo caso non si tratta di una novità, ma di un ritorno al passato: perché già dopo le elezioni del 2011 Erdoğan aveva coinvolto le opposizioni parlamentari nella stesura di una nuova carta fondante, ma senza troppo successo a causa di divergenze insanabili. Anche in questo nuovo tentativo di 10 anni dopo, però, la conflittualità tra partiti – soprattutto sulla forma di governo: presidenziale o parlamentare – impedisce larghe convergenze e neanche ci sono al momento i numeri per un approvazione parlamentare prima di sottoporre la nuova costituzione a referendum. La Turchia, perciò, sembra condannata a rimanere prigioniera delle proprie divisioni.