La transizione ecologica è il fiore all’occhiello del neonato governo. Si tratta dell’inedito ministero capace di rubare sin dal primo istante lo sguardo dell’opinione pubblica, ancora sedata dai miasmi pandemici.
Sarà stato il nome roboante, l’idea implicita di una rivoluzione futura, oppure il ben più prosaico motivo che tra le sue mani scorrerà un’ingente parte dei fondi europei. Fatto sta che sfogliando la versione digitale de La Repubblica, che quella cartacea fin troppo inquina l’ambiente e la mente, un titolo si impone: “Il digitale? Tecnologia fantastica, ma inquina il doppio del trasporto aereo.”
Ecco allora aprirsi una breccia nel perfetto e amorevole matrimonio annunciato tra ecologia e digitale. Com’è possibile? Avanzando nella lettura subentra un dettaglio ancor più degno di nota: si tratta di un’intervista a Cingolani, che è per l’appunto il Ministro della transizione ecologica. Senza addentrarsi nei dettagli dell’intervista, basti notare che il Ministro si fa portavoce di un’insolita e onesta umiltà, quasi impotenza di fronte alle sfide ecologiche che aspettano il suo ministero e il mondo intero, ribadendo solo il ruolo centrale della tecnologia e la volontà di operare una svolta in chiave ambientalista.
La domanda di fondo allora è: davvero la tecnologia dopo aver dovuto stuprare l’ecosistema, si è convinta a sposarlo? E a celebrare le nozze c’è l’uomo?
È cosa ammirevole che rispetto alla civiltà del cemento e del petrolio, la tecnica ci stia provando a rimpicciolirsi fino a diventare invisibile nella sua onnipresenza e partorire la nanotecnologia. Ma ce lo immaginiamo un nano scavalcare il muro demografico ed attraversare il traffico crescente del consumo per imboccare senza contraddizione la strada ecologica?
Che sia petrolio, nucleare, elettrico o digitale il principio del nostro sguardo ecologico resta infatti sempre lo stesso, teso verso la speranza di affievolire lo sfiato energico, la restituzione finale del consumo. Ci si chiede allora costantemente: cosa sprigioniamo nell’aria? Al contempo si dimentica spesso l’origine della produzione, il trasporto delle materie prime e la sepoltura delle scorie finali. E così anche l’elettrico, che si nutre di batterie che a loro volta si alimentano di litio, è destinato a inquinare. Il risultato allora pare non mutare: l’apparato tecnologico su cui si basa l’ecologica comunicazione digitale inquina lo stesso.
Inoltre persiste il problema dello smaltimento dei rifiuti, che così come le scorie nucleari, finiscono inevitabilmente nelle grandi pattumiere dell’Occidente, ovvero i soliti disgraziati paesi perennemente in via di sviluppo. Il che da’ vita a una romantica simmetria: i prodotti, nostalgici delle loro radici, come dei vecchi elefanti, tornano guasti e morti nelle stesse terre in cui era stata estratta la materia prima da cui hanno preso vita.
E tra la nascita e il funerale tecnologico resta l’uso e il consumo dell’occidentale smart, che comodo e leggero mangia bio per ricordarsi che la vita per esser ancora un valore deve farsi prima concetto, rigorosamente costruito intorno a un’etichetta di preferenza verde. D’altronde il verde è il colore della speranza e della natura, da cui derivano i germogli dei frutti, sempre piantati dalle mani dell’uomo, il cui sogno non è quello di assecondare il corso naturale delle cose, ma contemplare la terra come un infinito giardino all’inglese, curato e lussureggiante in cui poter specchiare la sua potenza. Però accade anche che imponenti pale eoliche vengano piantate come enormi mulini di cemento contro cui si infrangono perfino gli sguardi donchisciotteschi, oppure che i tetti delle case diventino degli enormi antiestetici solarium, facendo storcere il naso all’occidentale smart.
Con buona pace di Greta e di altre divinità infantili, la verità è che forse l’ecologia è destinata a restare intrappolata nella sua stessa essenza: la terra continua ad esser percepita come un prolungamento dell’uomo, che con orgoglio, diritto e naturalezza, vuole starci comodamente e più a lungo possibile.
Sebbene la decrescita felice resti una splendida utopia, è un paradigma contro natura, stavolta umana. L’uomo non può accettare di esser il Benjamin Button della terra. Il suo destino è quello di crescere, fare e disfare, costruire e distruggere, impegnarsi e lottare ma qualunque slancio ecologico resta impigliato in un equivoco di fondo.
Infatti ogni discorso sull’ambiente inizia con l’io o il noi come soggetto mentre la terra e il resto giocano solo nelle vesti di complementi e di oggetti. Eccoci allora correre verso l’ultimo sogno prima di voltarci in direzione di Marte o di qualche altro pianeta per cambiare complemento oggetto: il mondo digitale. L’idea di abitare un universo aereo di pura connessione che stia a metà tra la terra dei contadini e il cielo degli dei, che non lasci scorie, che non costringa più a spostarsi oppure ad incidere segni sulla vita materiale delle cose. Però alla fine si intromette come sempre la gravità beffarda ed inesorabile che continua a sospingere l’uomo verso la terra, nel sottosuolo da cui estrae le materie prime e in quell’altro dove seppellisce le scorie del suo benessere.
E il vero significato dell’ecologia forse risiede nell’esser logica dell’eco, che fa rimbombare al centro del tutto il suono di un solo nome: uomo.