Presidenza contro Parlamento: la crisi politica in Tunisia e le sue radici

Quando Ennahdha – il partito che in Tunisia da dieci anni a questa parte è il tema imprescindibile di ogni dibattito e la variabile esplicativa offerta per ogni disastro – chiama i suoi a scendere in piazza in difesa delle istituzioni vuol dire che la situazione è grave.

Fare politica attraverso le manifestazioni di strada non è nelle corde di un partito democratico musulmano che preferisce – appoggiandosi anche al testo coranico – pratiche deliberative come la shurà (consultazione) e il dialogo. Ci si risolve – in genere dopo aver tenuto a freno per lungo tempo una base scalpitante – quando percepisce un grave attacco a quelle istituzioni democratiche che il partito si è letteralmente dissanguato per costruire e consolidare, nel corso dei dieci anni post-rivoluzione che hanno visto il suo consenso elettorale crollare dal 37% dei voti per la Costituente al 20% raccolti alle ultime legislative del 2019.

La prima istituzione da proteggere è il parlamento ossia l’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo nella quale Ennahdha resta tuttora il partito di maggioranza relativa e che si trova oggi – non per la prima volta – bloccato da un conflitto istituzionale che in una giovane democrazia in cui mancano ancora contrappesi essenziali come la Corte costituzionale, può diventare estremamente pericoloso. Soprattutto se accompagnato da appelli palesi o sottotraccia (tra questi ultimi vanno annoverati quelli su facebook) a scendere in strada per protestare contro la casta politica identificata con il parlamento e il governo.

La grande manifestazione del 27 febbraio al centro di Tunisi – decine di migliaia di manifestanti venuti da tutto il paese – fa correre la mente all’imponente e pacifica manifestazione organizzata alla Casbah da Ennahdha la sera del 4 agosto 2013 allorquando i lavori dell’Assemblea costituente erano bloccati da settimane dalla secessione aventiniana di un gruppo di parlamentari e da un sit-in permanente di partiti e movimenti di opposizione sulla spianata del Bardo.

Oggi come ieri agitare slogan anti-istituzionali può essere pericolosamente efficace in un paese nel quale il popolo ancora ricorda di aver fatto crollare una dittatura scendendo nelle strade e scandendo il celebre Al chaab yourid isqat al nidham, “il popolo vuole la caduta del sistema”. Tanto più se il popolo sta ancora aspettando – dopo aver conquistato le libertà politiche e civili – quelle riforme economiche e sociali volte ad assicurare ai ceti sfavoriti la “vita dignitosa” che doveva essere la conseguenza del cambio di regime e se l’insoddisfazione si traduce periodicamente in scoppi di violenza sul sottofondo del mantra che invoca “una seconda rivoluzione”.

Certo in questi dieci anni la Tunisia è riuscita – unico tra i paesi scossi dalle primavere arabe – a salvaguardare e consolidare il processo democratico; si è dotata di una costituzione e di un parlamento; ha superato la prova di diverse tornate elettorali la cui regolarità è stata confermata e certificata da osservatori inviati dall’Ue e dalla società civile di mezzo mondo; ha sperimentato tutta la gamma di maggioranze, alternanze, coalizioni – senza contare un compromesso (quasi) storico – rinvenibile in un manuale sui sistemi democratici; da ultimo ha implementato il dettato costituzionale del decentramento politico insediando assemblee comunali elettive in tutto il territorio ed eliminando così le storiche disparità di rappresentanza tra città e campagna, regioni costiere e aree interne. Eppure ricordare oggi tutto questo suona come stantìa retorica alle orecchie di gran parte della popolazione, provata dalla disoccupazione (18%) e dalla perdita del potere di acquisto delle famiglie.

Questo divario tra percezione e realtà degli esiti della rivoluzione si riflette nel crescente divario che separa la classe politica dalle masse popolari. Esso ha aperto uno spazio in cui si sono incuneate le correnti nostalgiche dei burghibisti aggregatisi nel partito Nidà Tunès del defunto presidente Béji Caid Essebsi e dei benalisti confluiti nel PDL (Partito Desturiano Libero) della solforosa Abir Mussi. Ambedue, al di là dei diversi contenuti programmatici in materia istituzionale, economica e sociale, hanno costruito il loro consenso sul discorso anti-islamico, inteso come necessità di ridimensionare o eliminare Ennahdha dal panorama politico.

E anni di sbandieramento ideologico della pseudo-opposizione laici-islamisti hanno distolto l’attenzione del pubblico da una questione assai più importante, quella del rapporto tra le grandi aspettative della popolazione e la gamma limitata dei mezzi disponibili per perseguirle. Ovvero dal nocciolo dell’attività politica: “l’allocazione imperativa di risorse scarse” come l’ha definita il politologo David Easton, che significa definire le priorità e concentrare su di esse i mezzi che non sono solo leggi e soldi ma anche tempo.

All’indomani della rivoluzione Ennahdha ha scelto apertamente di dare la priorità alla costruzione e al consolidamento delle istituzioni democratiche. D’altra parte è difficile immaginare quali potessero essere le alternative: come è noto le politiche pubbliche di qualunque contenuto richiedono un minimo di legittimità dei decisori e un minimo di cooperazione degli apparati – richiedono insomma delle istituzioni. La rivoluzione aveva abbattuto quelle vecchie, si trattava ora di costruirne di nuove a fronte della sorda opposizione dei nostalgici del vecchio regime, della resistenza passiva degli apparati di uno stato ipertrofico, dei ricorrenti tentativi eversivi.

L’ostinato puntare sull’institution-building – cioè su un quadro di regole del gioco condivise attraverso coalizioni le più ampie possibili – ha portato dopo le elezioni parlamentari del 2014 al “compromesso storico” tra il partito secolarista e neo-bourguibista Nidha Tounès e quello democratico musulmano Ennahdha. Il compromesso si reggeva largamente sulle figure dei due leader carismatici, Béji Caid Essebsi e Rachid al Ghannouchi. Alla morte di Béji Caid Essebsi Nidha Tounès – una coalizione eterogenea messa insieme con l’unico scopo di bloccare “l’avanzata islamista” – era già in via di sgretolamento. Il decesso di Essebsi – che fu ministro sotto Bourguiba e presidente del parlamento sotto Ben Ali – apre una fase nuova in cui le spinte che da tempo e da più parti si manifestano in direzione di uno spostamento del perno del gioco politico dall’assemblea parlamentare alla figura del Presidente della Repubblica prendono forme inedite.

In realtà questa tendenza emerge già nel giallo che segna negli ultimi giorni di Béji Caid Essebsi. Il Presidente, da tempo in cattiva salute, ricoverato una prima volta d’urgenza a pochi giorni dal suo decesso e da qualcuno addirittura già dato per deceduto, avrebbe dovuto in quei giorni ratificare la nuova legge elettorale appena approvata dal parlamento o rimandarla all’assemblea per una seconda lettura. Ma Essebsi, che ha già convocato le elezioni, lascia passare il termine tassativo di quindici giorni senza fare né l’una né l’altra cosa. Così facendo viola l’articolo 81 della Costituzione – e trova chi plaude alla mossa con la quale il presidente della Repubblica si mostrerebbe al di sopra delle piccole manovre politiche interessate dei partiti e dei deputati. E mentre i costituzionalisti – in mancanza di corte costituzionale – discutono sul da farsi procedurale, l’opinione pubblica aspetta con curiosità il tradizionale discorso del Presidente da tenersi il 25 luglio, festa della Repubblica, sicura che qualcosa sull’argomento dovrà dire. Ma sarà delusa: la vigilia della festa viene annunciato il decesso del Presidente. Per avvelenamento. Dovuto a frutta andata a male … La sua morte mette fine – in virtù della pietas musulmana e dell’omaggio popolare – a critiche e illazioni.

Seppellisce anche una legge elettorale che avrebbe avuto per effetto principale quello di escludere, per conflitto di interessi, uno dei candidati più quotati alla sua successione: il magnate Nabil Karoui, proprietario della rete televisiva Nessma, amico di Tarek Ben Ammar, insomma il “Berlusconi tunisino” come lo chiamano in patria, che arriverà al ballottaggio nonostante abbia trascorso buona parte della campagna elettorale in prigione per fatti di evasione fiscale e riciclaggio. E forse avrebbe anche escluso colui che poi le elezioni le ha vinte: il costituzionalista e docente universitario in pensione Kais Saied, un outsider che al ballottaggio raccoglie il 72% dei voti, personaggio ieri enigmatico, oggi inquietante.

Un primo aspetto enigmatico riguarda la sua stessa elezione. Essa coglie di sorpresa tanto le cancellerie estere quanto gli analisti politici, ma anche i media e la gente comune. Il fatto che con il senno di poi venga fatto notare dagli uni e dagli altri che essa era stata annunciata dai sondaggi corrisponde a verità ma non spiega come mai quei sondaggi erano sfuggiti agli osservatori più attenti o comunque erano stati trascurati.

A meno che non abbia ragione il giovane sociologo Jihed Haj Salem secondo cui l’establishment ignora semplicemente tutto ciò che succede ai margini o fuori da esso: in questo caso la mobilitazione di una gioventù istruita e idealista. E lo stesso sostiene il filosofo e opinionista Youssef Seddik: i media sarebbero incapaci di raccontare la realtà e gli intellettuali di spiegarla. Ciò lascia il posto a quanti vogliono trasformarla … In fin dei conti anche la rivoluzione ha colto tutti di sorpresa.

E’ pur vero che da un giorno all’altro le donne del quartiere ultrapopolare di Melassine (dopo la visita di alcuni giovani attivisti) avevano espresso compatte la loro intenzione di votare Kais Saied – ma questa non è notizia da media. La stessa intenzione esprimevano ragazzi del ceto medio del quartiere residenziale di El Menzah sorprendendo chi li sapeva assai più più interessati alle discoteche e alle automobili che alla politica.

Si dice che la campagna elettorale di Kais Saied, fatta senza un partito e senza mezzi, si sia basata su incontri nei caffè animati dai suoi studenti – ma chi è che va a sentire quel che si dice nei caffè (in passato lo faceva la polizia)? Si sa soltanto che Kais Saied ha battuto la provincia insieme ai suoi giovani attivisti. Risulta anche che i sondaggi registrano una brusca impennata dei consensi nella primavera del 2019: coloro che se ne accorgono, a partire da Ennahdha, lo registrano con qualche sospetto. I sondaggi si riveleranno esatti ma i motivi dell’andamento della curva nessuno li spiega.

Basta davvero, per essere eletti, essere “percepiti come agli antipodi del mondo politico” – tanto più se ci si esprime in un forbito arabo classico – lingua che le masse popolari ignorano e i giovani borghesi disprezzano – anziché nel dialetto tunisino? Anche l’antipolitico, così come il politico, deve pur sempre farsi conoscere e a questo fine un seguito di studenti affezionati e bravi a usare le reti sociali sembra comunque un po’ poco come risorsa. Per non parlare del fatto che se – come tutti sostengono dati alla mano – il grosso della campagna si è svolto sulle reti sociali, al giorni d’oggi il sospetto che qualcuno che dispone, per impostare gli algoritimi, di mezzi più incisivi di quelli di un gruppo di studenti ancorché brillanti ed entusiasti possa aver dato una mano appare legittimo.

Ma soprattutto c’è da chiedersi se il fatto che un capo di Stato sia plebiscitato non solo senza un partito ma anche senza un programma sia davvero – al netto dell’entusiasmo di una sera – una buona cosa.
Nei fatti anche l’orientamento e il programma politico di Kais Saied sono piuttosto oscuri. “Ultra-conservatore” si sono affrettati a definirlo alcuni dopo le sue dichiarazioni a favore della pena di morte, contro la parità ereditaria tra maschi e femmine e contro la diffusione dell’omosessualità. Con inclinazioni marxiste-leniniste sussurrano altri scrutando il suo passato.

A favore dei giovani sostengono quei giovani che l’hanno votato ma che sono incapaci di indicare una sola politica che il candidato presidente metterebbe in atto – e che peraltro non sarebbero di sua competenza. L’unico punto chiaro è che si tratta di un programma anti-parlamentare. Kais Saied, che è stato anche consulente dell’Assemblea Costituente, e le cui posizioni in questi anni hanno trovato spesso ospitalità sui media, è fortemente critico del sistema istituzionale semi-presidenziale scelto per la Tunisia.

Vuole trasformare l’assemblea parlamentare in un’assemblea di rappresentanti di secondo grado, nominati da consigli locali elettivi. Il fatto che il suo modello sia ispirato da Khaddafi secondo alcuni, da Bakunin o Rosa Luxemburg secondo altri, non depone a favore della chiarezza del suo messaggio. Più inquietante tuttavia il fatto che un presidente della repubblica venga eletto su un programma che prevede l’abolizione della massima istituzione democratica. Ed è difficile pensare che le masse giovanili alle prese con la disoccupazione o le madri di famiglia alle prese con l’inflazione si siano appassionati alla tematica dei consigli locali dato che solo l’anno precedente si sono svolte, in mezzo a una buona dose di indifferenza o scetticismo, le prime elezioni municipali democratiche.

Quelle sì, davvero innovative: la legge elettorale ha introdotto l’obbligo di liste paritarie per sesso nonché quote per giovani e disabili; le elezioni hanno dato voce per la prima volta alle campagne e alle aree interne dove fino allora i comuni non esistevano; la struttura dei nuovi comuni prevede numerosi sostegni e incentivi alla democrazia diretta.

Tra i due turni delle elezioni presidenziali, anticipate per via della morte di Béji Caid Essebsi, si svolgono nell’ottobre 2019 quelle legislative. Il disinteresse dei media non è dovuto soltanto all’inusuale calendario elettorale. Riflette un sentire popolare radicato in una cultura impregnata di paternalismo notabiliare o carismatico che i media, lungi dal controbilanciare, alimentano, puntando tutta l’attenzione sulle elezioni presidenziali.

Dalle legislative esce un parlamento fortemente frammentato. Su 217 seggi Ennahdha ne ottiene 52. Alle sue spalle il nuovo partito Qalb Tounes (Cuore della Tunisia) di Nabil Karoui ottiene 38 seggi mentre al terzo posto il partito d’ispirazione socialdemocratica Attayar Demokratia (Corrente democratica) con 22 seggi ha l’ambizione di essere l’ago della bilancia. Seguono due partiti meno candidabili ad un governo di coalizione centrista: il partito islamico radicale Al Karama dell’avvocato Seiffeddine Makhlouf con 21 seggi e il PDL (Partito Desturiano Libero) dei nostalgici di Ben Ali guidati da Abir Moussi con 17 seggi. Infine la costellazione dei partiti che si richiamano variamente al socialismo arabo-nazionalista, al modernismo tecnocratico laico, all’operaismo marxista, più una manciata di partiti personali. Questa frammentazione permetterà al nuovo Presidente della Repubblica – plebiscitato a ridosso delle legislative e festeggiato sull’avenue Bourguiba in un tripudio che ricorda quello seguito alla fuga di Ben Ali – di cercare di imporsi come perno del processo politico.

Di fronte ad un’assemblea parlamentare frammentata e ad un partito di maggioranza relativa in difficoltà – Ennahdha è riuscita a far eleggere il suo leader Gahnnouchi a Presidente dell’Assemblea ma non a far passere il suo candidato premier Habib Jemli – Kais Saied riesce ad imporre, l’uno dopo l’altro, due governi del presidente. Il primo è presieduto da Elyès Fakhfakh che Kais Saied costringe a dimettersi quando sta per essere sfiduciato dal parlamento, onde riservarsi il potere di scegliere il suo successore. Per il secondo affida l’incarico a Hichem Mechichi che forma un governo interamente composto da tecnici, come il precedente, nel quale alcuni dei ministri chiave sono stati indicati personalmente da Kais Saied.

Malgrado le reticenze di Ennahdha il parlamento – posto di fronte alla minaccia del scioglimento – vota la fiducia. L’intesa tra Saied e Mechichi però si sgretola presto a fronte del controllo che il primo pretende di esercitare sul secondo mentre le iniziative irrituali e gli attacchi personali del presidente della repubblica al capo del governo incominciano a destare perplessità nell’opinione pubblica e tra i suoi stessi sostenitori di ieri.
Mechichi – consapevole del fatto che un capo di governo, al di là dell’investitura del capo dello Stato e delle competenze tecniche della sua squadra abbisogna di una maggioranza parlamentare, cosa che i Tunisini fanno ancora fatica a capire – si appoggia quindi sulla alleanza nel frattempo ricostituitasi tra Ennahdha e Qalb Tunès e a metà gennaio di quest’anno procede ad un ampio rimpasto ministeriale in cui cadono le teste dei ministri precedentemente imposti da Saied.

Il nuovo governo ottiene la fiducia del parlamento – procedura non richiesta dalla costituzione ma diventata consuetudine – ma viene bloccato da Kais Saied che rifiuta di far prestare giuramento ai nuovi ministri, come d’obbligo per entrare in funzione, con motivazioni che partono da questioni procedurali e approdano a insinuazioni sull’integrità morale e il conflitto di interessi di alcuni candidati.

Lo scontro dei “tre presidenti”, che oppone il presidente della repubblica da un lato, il presidente del consiglio dei ministri e il presidente del parlamento dall’altro, sta bloccando il paese da sei settimane, rivelando la fragilità di un parlamento sotto costante minaccia di dissoluzione da parte del capo dello Stato e senza una Corte costituzionale per proteggerlo.

Nello stesso periodo in cui si apriva la crisi, il 14 gennaio, cadeva il decimo anniversario della rivoluzione tunisina, festa nazionale che quest’anno non è stata celebrata, sacrificata al lockdown anti-covid. Proprio in quei giorni scoppiano simultaneamente, in diversi quartieri popolari di Tunisi e altre città sparse nel paese, dei disordini notturni tutti con le stesse caratteristiche: gruppi di minorenni che sfidano il coprifuoco e scendono in strada senza parole d’ordine precise, saccheggiando negozi, vandalizzando banche, insultando la polizia.

La tattica ricorda quella dei giorni della rivoluzione, le violenze quelle di sedicenti salafiti ai tempi della “troika” (una coalizione mista Ennahdha e socialdemocratici) e se le motivazioni dei disordini rimangono vaghe il timing è perlomeno sospetto. L’immagine che i disordini trasmettono è quella di uno scollamento tra le istituzioni politiche apicali bloccate da un braccio di ferro basato su formalismi costituzionali e personalismi paranoidi e i giovani delle periferie impoveriti e senza futuro, vittime della “repressione poliziesca”. Sulle reti sociali i disordini sono letti come protesta contro la classe politica, e in particolare contro Ennahdha. “Oggi tutti i Tunisini odiano Ennahdha” afferma convinta una tranquilla madre di famiglia sostenitrice di Kais Saied.

La verità però è che dalla rivoluzione ad oggi non si dà un solo partito che sia stato al potere senza perdere voti e consensi e spiegarlo esclusivamente con l’incompetenza, l’autoreferenzialità e l’egoismo della classe politica è quantomeno riduttivo. Ai vertici politici del paese dopo la rivoluzione si sono avvicendate elites di ogni tipo: figure notabiliari compromesse con i passati regimi ma dotate di solida cultura e sincero amor di patria; nuovi leader senza esperienza politico-amministrativa ma formatesi in anni di resistenza e di studio in esilio o in galera; tecnocrati con alle spalle carriere in ambito internazionale e giovani generazioni fresche di studi all’estero richiamati dai diversi partiti a servire una patria che magari non conoscono bene ma in cui hanno l’ambizione di lasciare una traccia.

I leader politici più conosciuti hanno fatto posto da ultimo – a grande richiesta di popolo – ai cosiddetti tecnocrati: Elyès Fakhfakh è un ingegnere che si è formato in Francia ed è stato manager in varie sedi della Total all’estero prima di tornare a dirigere una azienda tunisina. Hichem Mechichi è un alto funzionario diplomato della prestigiosa ENA (Ecole Nationale d’Administration) dove si formano i vertici dello stato e della politica francesi. Ambedue hanno insediato una schiera di tecnici provenienti dal pubblico o dal privato mentre il popolo ha prontamente incominciato a lamentarsi del fatto che i nuovi ministri “non li conosce nessuno”.

Del resto dipingere Kais Saied come un “antipolitico” – se mai tale figura esiste – è fuorviante. A Sousse, una delle principali città tunisine, la sua campagna elettorale è stata coordinata da Taoufik Charfeddine, cinquantenne avvocato presso la Corte di cassazione, titolare di incarichi presso l’ordine regionale degli avvocati e presso la Lega del centro calcistico, che in seguito Kais Saied ha imposto come Ministro dell’Interno al capo di governo: mossa non prettamente apolitica. Kais Saied si è candidato offrendo una alternativa politica: non a caso appena giunto al potere il suo consenso è cominciato a scendere. Mentre il suo attuale braccio di ferro con il primo ministro lo ha fatto risalire. Tutto ciò dovrebbe perlomeno suggerire di cercare le cause dello scollamento in fattori istituzionali, come l’attuale legge elettorale, che indeboliscono il parlamento, ostacolano la formazione di governi stabili e favoriscono la frammentazione partitica.

Anche lo scollamento tra giovani e classe politica richiede letture più accurate di quelle offerte dai media. I 440 000 giovani che al primo turno sono andati a votare espromendosi al 90% per Kais Saied rappresentano il 47% degli elettori tra i 18 e i 25 anni. Un tasso di partecipazione straordinaria. Tuttavia quei giovani – che hanno una base nei movimenti dei diplomati disoccupati – hanno poco a che vedere con gli adolescenti che animano le guerriglie urbane notturne delle periferie così come il tifo nelle curve popolari degli stadi.

E’ più probabile che abbiano qualcosa in comune con i giovani che negli anni precedenti sono andati a combattere in Siria – la Tunisia ha fornito il numero più alto al mondo di foreign fighters – o hanno abbracciato l’islam puritano di stampo salafita. Il giovane sociologo Haj Salem che si è occupato di processi di radicalizzazione, in una intervistato a France 24 dopo l’elezione di Kais Saied, riconduce il fenomeno alla “assenza di una alternativa politica” e sostiene che l’elezione di Kais Saied è il frutto di “un processo sotterraneo di politicizzazione della gioventù tunisina”. Il neo-presidente ha saputo incanalare su di sé la “ricerca di senso” di una gioventù alla quale una dittatura ventennale ha offerto come uniche prospettive la crescita dei consumi e l’occidentalizzazione dei costumi.

Tuttavia le difficoltà del paese a darsi dei governi stabili e che godano di una certa fiducia non possono essere lette solo in chiave istituzionale. Lo scollamento tra le elites politiche e popolo tunisino è anche il frutto di un fenomeno con radici storiche: la distruzione sistematica di tutte le tradizionali forme di solidarietà sociale – familiare, locale, religiosa – perseguita dapprima dal colonialismo francese, poi dall’illuminismo secolarista burghibista, da ultimo dallo statalismo corporativista di Ben Ali.

Queste matrici di solidarietà vanno dalla famiglia allargata, alle comunità di villaggio e di gestione delle terre comunitarie nel Sud del paese alle fondazioni caritatevoli islamiche (il waqf) che nei quartieri urbani come nei paesi hanno finanziato studentati, mense, biblioteche, scuole, moschee. Con esse sono stati distrutti dei corpi intermedi che nelle società arabo-musulmane sono alla base di una profonda cultura della solidarietà e della corresponsabilità.

Tale solidarietà è stata invisa tanto ai poteri coloniali quanto allo statalismo post-indipendenza in quanto percepita – correttamente – come propria di corpi intermedi che potevano all’occasione configurarsi anche come contro-poteri. E se i giorni della rivoluzione hanno resuscitato quel sentimento – che oggi tutti ricordano e rimpiangono – nella fase successiva esso si è rapidamente sfaldato di nuovo facendo spazio agli egoismi, ai corporativismi, a forme di invidia e di odio sociale. Sicché oggi il paese presenta una popolazione con una profonda crisi di identità, una notevole dose di disprezzo per la propria lingua e cultura, e una diffusa condizione di ciò che i sociologi chiamano anomia, ovvero assenza di norme e regole sociali condivise.

Una responsabilità grandissima di ciò, così come dello scollamento tra rappresentanti e popolo, va attribuita a quel gruppo sociale la cui funzione naturale sarebbe quella di creatori di valori e di mediatori critici tra politica e società: il ceto medio intellettuale. Sono laureati e diplomati, francofoni e cosmopoliti: insegnanti, impiegati statali, dipendenti intermedi del parastato e della aziende pubbliche e, un gradino più su, giornalisti e sindacalisti, professori e professionisti. Titolari di un posto di lavoro fisso e garantito, di uno stipendio magari modesto ma comunque privilegiato rispetto a quello degli operai delle miniere e dei cantieri, dei lavoratori delle manifatture e delle campagne (che comprendono ambedue larghe proporzioni di donne ancora meno pagate degli uomini), delle domestiche e dei camerieri di bar e ristoranti – chi se non loro doveva rallegrarsi della conquistata libertà di espressione? Sono loro quelli che più hanno guadagnato dalla rivoluzione.

Non avevano bisogno di una vita dignitosa: ce l’avevano già. Mancava loro solo una cosa: la libertà d’espressione. Quando l’hanno ottenuta hanno lamentato che la rivoluzione ha portato “solo” la libertà di espressione. Hanno diffuso questo messaggio velenoso tra la popolazione più povera e meno istruita, tra una gioventù resa permeabile da un sistema educativo in caduta libera e da un modello consumista in crescita costante.

I loro sindacati non hanno esitato a promuovere, approvare e praticare assunzioni di massa e rincorse salariali nel settore pubblico, a partire dai netturbini su su fino ai magistrati passando per la massa degli insegnanti (che stanno annunciando nuovi scioperi in questi gironi, incuranti di tutti i discorsi sulla crisi). Si sono ben guardati dal fare un passo indietro per lasciare le risorse scarse ai più poveri e marginali. Si sono anche ben guardati dal dire – loro che dispongono dei mezzi per farsi ascoltare dalla pubblica opinione – ciò che oggi sa anche un bambino: che tali comportamenti sono alla base dell’inflazione galoppante e che l’aumento in busta paga ottenuto oggi sarà annullato dal prezzo dei pomodori sul mercato domani.

Si guardano bene dal dire – mentre inveiscono contro il governo che contrae debiti con il vituperato FMI per pagare la spesa corrente e contro il FMI medesimo che chiede il rimborso del prestito – che l’incidenza sul budget della massa salariale del comparto pubblico in Tunisia è una delle più alte del mondo. E in più di una occasione hanno alimentato un vero e proprio hate speech nei confronti di Ennahdha e più in generale di qualsivoglia manifestazione dell’islam nello spazio pubblico.

Non a caso nel discorso di Rachid Ghannouchi alla manifestazione del 27 febbraio la parola “odio” figura in più di un passaggio con una condanna particolarmente solenne per l’odio e il rancore: “Il nostro paese è sfinito dall’odio: i Tunisini provocano l’odio verso altri Tunisini. Ma l’odio è un fuoco che brucia coloro che lo appiccano e che brucia tutto. … Ritirate l’odio dai cuori”. Ed è altrettanto decisa la messa in guardia contro la “guerra di parole, guerra mediatica, demonizzazione dei Tunisini da parte di altri Tunisini … Basta con la demonizzazione di chiunque, dei media, dei politici, degli uomini d’affari.”

Il discorso tenuto dall’anziano leader carismatico su più di un tema non dice cose molto diverse dal laico e liberale L’Economiste maghrébin che dieci giorni dopo in un articolo intitolato “Dove va la Tunisia?” parla di corsa verso “una bancarotta finanziaria, politica e morale”. Quando l’articolista stigmatizza “la corsa a perdifiato dietro al debito” che si riflette in un bilancio nel quale “il debito, con tutti i mezzi e a qualunque prezzo, è la sola variabile di aggiustamento” pare di leggere la descrizione dei bilanci delle famiglie tunisine e dei relativi comportamenti sociali basati sull’indebitamento permanente per soddisfare forme di consumo ostentativo.

Comportamenti che spiegano perché la crisi economica non ha messo fine ai ristoranti di lusso, alle spese per le feste di matrimonio, alle abbuffate del Ramadan, ai cellulari di ultima generazione e agli abiti griffati ostentati dai giovani – ivi compresi gli elettori di Kais Saied. E in fin dei conti non dice cose molto diverse da Ghannouchi il quale ha ricordato ai manifestanti che anche il colonialismo è arrivato sull’onda del debito pubblico e che “Oggi come ieri stiamo annegando nei debiti: spendiamo più delle nostre entrate, a livello individuale, familiare e statale”.

Il 27 febbraio Ghannouchi ha anche esortato i manifestanti a “rinnovare la cultura del lavoro” ponendosi sulla stessa lunghezza d’onda di tutte le diagnosi che vedono nella bassa produttività uno dei maggiori ostacoli alla crescita. Solo che il leader di Ennahdha aggiunge: “Perché il lavoro è fondamentale nell’islam” e questo riferimento suona intollerabile tanto alla bourgeoisie laïque francophone di matrice burghibista quanto ai nuovi ricchi creati dallo statalismo di Ben Ali. Come se la ricetta proposta da L’Economiste maghrébin, il quale, per “rimettere in carreggiata i Tunisini disamorati dal lavoro” invoca “una governance politica tutta diversa, fondata su una visione, un piano d’azione chiaro e preciso, una volontà, una determinazione e un coraggio politico a prova di tutto” fosse qualcosa di più di una vaga retorica.

La Tunisia sta già sperimentando il suo secondo governo di “tecnocrati” pescati tra i consulenti aziendali e gli alumni delle Grandes Ecoles francesi. Non diversamente dai precedenti governi politici, anch’essi non sono finora apparsi in grado di opporsi al ricatto degli scioperi di massa nel pubblico impiego – si tratti di netturbini o di insegnanti o di colletti bianchi – spalleggiati da potenti sindacati e oligarchie statali o nel boicottaggio delle grandi corporazioni come quelle dei medici. In quanto ai due Presidenti della repubblica che sono succeduti al tanto criticato Marzouki, si sono contraddistinti ambedue per strappi costituzionali, il secondo tuttora in corso.

In questo contesto in cui tutti appaiono capaci di suggerire soluzioni tecniche ma sono incapaci di indicare i mezzi politici per perseguirle Ennahdha appare il solo partito che da dieci anni a questa parte esprime una visione di lungo termine “chiara, precisa e coraggiosa” che consiste nel puntare, whatever it takes, sul consolidamento delle istituzioni democratiche nella convinzione, secondo le parole di Ghannouchi, che “se la democrazia mette radici, assicurerà la prosperità politica, economica e sociale” perché “non si dà al mondo una democrazia povera”.

Al contempo Ghannouchi è convinto che il radicamento di istituzioni democratiche non può farsi senza un referente valoriale (la pensava così anche il grande sociologo Max Weber) e che in Tunisia questo referente non può che essere l’islam. Mantenendo saldi questi due pilastri della sua visione strategica Ennahdha – al netto dei suoi vari errori tattici e delle competenze lacunose sul piano amministrativo – paga un prezzo non indifferente: alla perdita dei consensi all’esterno si affianca la fuoriuscita di figure di spicco dal suo interno.

Sarebbe interessante capire se Ennahdha in futuro sarà studiata come l’organizzazione la quale – smentendo la celebre teoria di Michels sui moderni partiti di massa – è rimasta “mezzo per raggiungere uno scopo” anziché diventare fine a se stessa.