David Hearst, direttore di Middle East Eye ha ricostruito in un lungo editoriale l’evolversi delle relazioni tra i diversi attori della politica mediorientale, il patto tra Arabia Saudita, Emirati ed Egitto in primis e i cambiamenti che si stanno realizzando sull’asse Ankara- Il Cairo, destitati a modificare gli equilibri nella regione. Abbiamo tradotto e pubblicato il suo articolo.
L’alleanza dei governanti regionali, che tanto hanno fatto per sopprimere la democrazia, si sta indebolendo perché i suoi membri si detestano a vicenda. Nei dieci anni trascorsi, un’alleanza di uomini di governo ha fatto tutto quanto era in suo potere per fermare la progressiva e irreversibile lotta in favore dei diritti umani nel mondo arabo.
Per salvaguardare i regimi in dissoluzione che la costituiscono, questa alleanza ha distrutto quelle che un tempo furono fiere e civili nazioni. Ha fomentato guerre nello Yemen, in Libia e in Siria, riducendole quasi completamente in macerie. Ha promosso il colpo di Stato in Egitto, e ne ha tentato altri in Tunisia e in Turchia. Un fiume di sangue è scorso per questi interventi.
Interventi che hanno avuto come giustificazione la difesa della regione dall’Islamismo e dall’estremismo, attraendo così l’ingenuo, o cinico, sostegno delle ex potenze coloniali francesi e inglesi. Nei fatti la loro “jihad” non ha nulla da spartire con la difesa del liberalismo e del secolarismo.
Questi regimi non si sono fatti scrupolo di arruolare forze religiose per fini politici. La loro è stata la ricerca dell’egemonia, o del come trasferire l’autocrazia da una generazione all’altra. Per loro il potere faparte dell’argenteria di famiglia.
Verso la fine del 2015- due anni dopo il loro primo e più grande successo, cioè il colpo di Stato militare in Egitto, i leader di questa alleanza, i principi coronati e governanti di Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti, del Bahrain, dell’Egitto e della Giordania, si riunirono segretamente su uno yacht sul Mar Rosso per elaborare i loro piani per la regione.
Rivedere gli stessi personaggi su uno yacht nel Mar Rosso oggi, sei anni dopo, sarebbe piuttosto difficile, per la semplice ragione che l’organizzatore di questo summit segreto è in galera. George Nader sta scontando dieci anni per pedofilia. Inoltre, i partecipanti di allora oggi hanno qualche motivo reciproco di rancore.
Denaro come fosse riso
Le relazioni fra Arabia Saudita e Egitto si sono raffreddate molto rapidamente. I sauditi non hanno più “denaro come fosse riso” come avrebbe detto il presidente egiziano Abdel Fattah el Sisi al suo capo gabinetto Abbas Kamel. E comunque re Salman non è generoso come fu il suo defunto fratello Abdullah, e non lo sarebbe anche se avesse i soldi che non ha.
Sisi aveva provato ad ottenere una nuova linea di finanziamento da Riyadh cedendo Tiran e Sanafir, due isole disabitate ma posizionate strategicamente sul Mar Rosso, sollevando per questo molte proteste in patria. Ma i sauditi non sono più interessati a quisquiglie come il canale di Suez e il golfo di Aqaba.
Pensano piuttosto a vie, attraverso Israele, più economiche e più rapide al Mediterraneo. L’Egitto non lo dice, ma è sempre più irritato per i piani che prevedono di tagliar fuori il Canale di Suez, che ha ampliato con una spesa di 8,2 miliardi di dollari.
Che si tratti di invertire quello che al tempo degli Sha era l’oleodotto segreto che dall’Iran portava a Israele, o lo sviluppo di porti e di zone franche in Israele, o il Blue Raman, un nuovo cavo a fibre ottiche per il Medio Oriente, tutto ciò per il Cairo significa una cosa sola: un enorme perdita di denaro e di influenza regionale.
Non che in passato non ci siano stati contrasti fra lo Stato banchiere e il suo cliente. Il rifiuto egiziano di inviare truppe a combattere la disastrosa guerra in Yemen ne è un esempio. Il Cairo ha poi rifiutato di essere ostile all’Iran e ai suoi alleati in Libano. Ma due nuovi fattori stanno persuadendo l’Egitto che i suoi interessi nazionali non sono sempre assecondati nel migliore dei modi dai suoi alleati regionali.
Il fattore Biden
Il primo è l’arrivo in scena del presidente statunitense Joe Biden con la sua non celata antipatia per il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, anche se non vuole sanzionarlo. Sisi non ha interesse a seguire bin Salman nel novero dei dittatori paria. Ha al contrario un forte motivo per star lontano da quel clan.
La reputazione internazionale di Bin Salman è stata minata dall’uscita del rapporto dell’intelligence americana sull’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi. Quando questo rapporto è stato pubblicato, Mohammed bin Salman si sarebbe aspettato un messaggio di solidarietà da parte di tutti i membri del suo club, e anche da parte di quelli che, come nel caso del Qatar, non lo sono.
In maggioranza sono stati solidali. Il re Abdullah II di Giordania e il primo ministro sudanese Abdalla Hamdok sono volati a Riyadh. Altri come il Barhain e gli Emirati Arabi Uniti hanno emesso dei comunicati. Il solo Stato a rimanere in silenzio è stato l’Egitto.
Il secondo fattore è costituito dalla sconfitta militare del generale libico Khalifa Haftar, quando le sue forze sono state respinte da Tripoli e costrette a ritirarsi nella Sirte. L’intervento turco, e l’efficacia dei suoi droni, è stato uno shock per l’Egitto, i cui programmi in Libia erano dettati dagli Emirati. E comunque l’Egitto aveva investito considerevolmente nell’addestramento, nell’armamento e nel rifornimento delle forze di Haftar.
Quando sia Egitto che Emirati si sono accorti di essere dalla parte dei perdenti- e questo è avvenuto un po’ prima che Haftar spingesse Sisi ad invadere- alcuni media egiziani hanno pubblicamente cominciato a chiedere il perché l’Egitto si trovasse in quella posizione. La Libia è importante per il suo vicino e non solo per i milioni di egiziani che in tempo di pace vi lavorano.
Quando prospera la Libia, prospera anche l’Egitto. La sconfitta di Haftar ha aperto la via a colloqui diretti con il governo di Tripoli e a colloqui segreti con i capi dell’intelligence turca.
Il risultato è stato che i candidati della lista che ha perso le elezioni per il ruolo di primo ministro avevano ricevuto il gradimento sia turco che egiziano. Il tacito accordo fra Ankara e il Cairo non è stato però turbato dalla sconfitta di queste liste decretata dai libici. Neppure le relazioni fra il Cairo e Abu Dhabi sono così strette. La freddezza è cominciata per una questione di denaro. Ma è rapidamente cresciuta con il riconoscimento di Israele da parte di Abu Dhabi.
La seconda ondata
La seconda ondata di normalizzazione con Israele ha preso il posto della prima. Sia Egitto e Giordania hanno perso influenza nel ruolo di guardiani del mondo arabo nei confronti di Israele, mentre l’influenza da loro persa l’hanno acquisita gli Emirati Arabi Uniti.
Quando Abu Dhabi ha annunciato che avrebbe investito 10 miliardi di dollari nei settori israeliani dell’energia, in quello manifatturiero, nell’acqua, nello spazio e nell’agro-tecnico, non è stato un caso che la Giordania abbia per prima cosa rifiutato di permettere al jet di Benjamin Netanyahu di entrare nel suo spazio aereo, ed egli abbia dovuto annullare il suo viaggio per ricevere personalmente il premio in denaro. L’ufficio di Netanyahu ha dichiarato che l’incidente nasceva dalla decisione israeliana del giorno precedente di annullare la visita del principe ereditario giordano alla moschea di Al-Aqsa.
Molta della legittimità della dinastia hascemita risiede nel suo ruolo di custode dei luoghi santi in Gerusalemme, un ruolo che è ora apertamente minacciato dal suo cugino saudita con l’incoraggiamento israeliano. Bin Salman sta giocando un gioco a somma zero. Facendo crescere il suo rapporto con Israele, destabilizza il confine israeliano più sicuro.
Il summit dello yacht è stato convocato per contrastare la resistenza di Turchia e Iran ai loro piani. Non è quindi un caso che due delle nazioni che parteciparono al summit stiano ammorbidendo la loro ostilità nei confronti di Ankara.
Entra la Turchia
Turchia e Arabia Saudita sono spinte una nelle braccia dell’altra da un presidente americano che è ostile sia al principe ereditario saudita così come al presidente turco Recep Tayyip Erdogan. È stato detto a Mohammed bin Salman dai suoi consiglieri che se avesse vinto Biden, avrebbe dovuto stabilire delle relazioni con la Turchia. Bin Salman non ne è convinto, e non può dimenticare che Erdogan ce l’ha con lui perché ha ordinato l’omicidio di Khashoggi. Ma il rapporto fra suo padre, il re Salman e Erdogan non si è mai interrotto e da qui nascono questi tentativi esitanti.
Il Qatar ha offerto la sua mediazione, il che è divertente, perché quando è iniziato il boicottaggio degli Stati della penisola del Golfo, i turchi si offrirono di mediare. La Turchia mantiene forti relazioni con l’Oman e il Kuwait e sia Ankara che Riyadh sono interessati a mostrare a Washington che sono importanti attori regionali.
Ma succede dell’altro dietro la facciata? Recentemente gli houthi hanno rivendicato l’abbattimento di un drone che “aveva mostrato il suo valore nell’Azerbaijan”, un riferimento obliquo alla Turchia. Si trattava di un drone turco, ma non un drone usato nell’Azerbaijan. L’anno scorso il governo saudita ha firmato un accordo con una compagnia locale per la fornitura di droni armati dopo aver ottenuto la licenza sul trasferimento tecnologico da un’azienda turca della difesa, Vestel Karayel. Sei droni sono stati consegnati.
La Turchia nega ogni coinvolgimento ufficiale in questo trasferimento di tecnologia. Una fonte turca vicina all’industria della difesa ha detto che la Vestel non ha cercato l’autorizzazione del governo per fare questo trasferimento a Riyadh. Ciò non toglie che questo incidente sollevi degli interrogativi. La Janes defence news, un’agenzia d’informazione della difesa, ha detto che Karayel non era nota per essere in rapporto con l’apparato militare saudita.
Comunque il boicottaggio saudita sulle merci turche continua.
Ristabilire i legami con l’Egitto
Il Cairo ha minimizzato le numerose dichiarazioni della scorsa settimana del ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu, del consigliere principale del presidente Ibrahim Kalin e dello stesso presidente circa il dover voltar pagina con l’Egitto.
Il ministro degli esteri egiziano Sameh Shoukry, confermando i contatti con Cavusoglu, ha detto che la Turchia deve “allinearsi ai principi egiziani” prima che le relazioni possano ritornare normali. E il redattore capo del giornale egiziano al Watan ha stilato una lista di dieci condizioni per il ristabilimento delle relazioni.
Ciò avrà su Ankara lo stesso effetto avuto dalle 13 richieste al Qatar formulate dai paesi che nel 2017 ne volevano il blocco.
L’ottimismo di Ankara è cominciato quando l’Egitto ha lanciato una gara internazionale per l’esplorazione e la ricerca di gas e petrolio nel Mediterraneo orientale che riconosceva le coordinate della piattaforma continentale stabilite da Ankara. Il ministro degli esteri greco Nikos Dendias afferma di aver “aggiustato” quelle coordinate dopo un viaggio al Cairo.
I capi dell’intelligence turca, hanno comunque incontrato la loro controparte egiziana diverse volte. Lasciando da parte la Libia, la Turchia sta offrendo agli egiziani il suo aiuto per la controversia con l’Etiopia per la Grande Diga del Rinascimento Etiope. Gli Emirati Arabi Uniti stanno facendo il contrario offrendo aiuto al primo ministro etiope Abiy Ahmet.
Mohammed Dahlan, l’ex capo della sicurezza di Fatah, basato ad Abu Dhabi, ha visitato Addis Abeba in una visita annunciata ufficialmente. Quello che non è stato annunciato, secondo una fonte bene informata, è stato che il suo capo, il principe Mohammed bin Zayed, fosse con lui. L’Egitto sta resistendo all’offensiva del fascino turco e non ci sono stati miglioramenti.
“L’Egitto vorrebbe che Ankara prendesse almeno una misura simbolica sulla presenza in Turchia della Fratellanza Musulmana,” ha detto a MEE un funzionario.
Se questo è quello di cui ci sarebbe bisogno, non potrà concretizzarsi. La Fratellanza Musulmana non ha in Turchia una presenza fisica, come può essere un ufficio regionale. Quindi non c’è nulla che possa essere chiuso. Prendersela con persone appartenenti alla grande comunità egiziana espatriata in Turchia, vorrebbe dire estradarle, cosa che la Turchia non farà. Non vi è neppure una qualsiasi pressione turca sui media egiziani a Istanbul. Il Cairo apprezzerebbe in modo speciale la chiusura del canale televisivo Al Sharq.
“Le autorità turche non hanno nulla da offrire e neppure da togliere se si parla di Al Sharq Channel perché non ci finanzia la Turchia e neppure il Qatar,” così il suo proprietario, Ayman Nour, il politico di opposizione egiziano, ha detto a MEE. “Non abbiamo percepito alcun cambiamento turco relativamente a Al Sharq.” (Dalle ultime notizie sembra che Ankara abbia chiesto a questi canali un ammorbidimento di linea, ndr)
Inoltre far qualcosa del genere comporterebbe un cambiamento strategico non solo in politica estera ma anche in politica interna. Pur essendo la Turchia una repubblica laica, Erdogan è quanto di più prossimo a un leader di orientamento islamico. Nessuna di queste tensioni sull’asse che tanti sforzi ha fatto per sopprimere la democrazia e le libere elezioni è definitiva. I diversi attori potrebbero usare queste aperture verso i nemici dichiarati come reciproche monete di scambio.
Ma l’asse stesso si indebolisce e le lezioni per loro nella regione sono chiare. Quando le relazioni di politica estera si basano su patti segreti fra leader, ognuno dei quali ha buone ragione per temere il suo stesso popolo, sono relazioni costruite sulla sabbia. Se invece sono basate sugli interessi strategici dei loro popoli, allora sono più durevoli. Più gli interessi nazionali si basano sugli interessi dei popoli invece che su quelli dei loro governanti, più stabile sarà la regione.
Fino ad oggi ci sono stati calorosi abbracci un giorno, e coltellate alla schiena il giorno successivo.