Adesso tutti si scandalizzano per la decisione della Turchia di ritirare la propria adesione alla Convenzione di Istanbul che sarebbe un fulmine a ciel sereno, un “colpo di mano” secondo l’Avvenire, una scelta “improvvisa e ingiustificata” secondo Joe Biden. Ambedue gli esempi mostrano semplicemente come – quando si parla di Turchia – tanto i politici quanto i media si sentano esonerati dall’obbligo di precisione e da quello di argomentazione.
In Turchia il dibattito intorno alla convenzione di Istanbul va avanti da mesi come mostrano articoli bene informati ancorché molto unilaterali o esplicitamente denigratori apparsi sul The Guardian e su Huffington Post.
Sappiamo che in questi mesi Erdogan ha dichiarato che la Turchia sarebbe uscita dalla Convenzione se il popolo turco lo richiedeva; sappiamo che a lungo ha incontrato la resistenza delle donne anche all’interno dell’AKP, ivi compresa quella della figlia Sumaya che dirige una importante ong femminile. Dopo l’uscita dalla Convenzione le organizzazioni di donne vicine ai partiti di opposizione hanno inscenato manifestazioni di protesta, quelle vicine al partito di maggioranza si sono allineate alla decisione. Benvenute nel club, ci viene da commentare.
Questo è esattamente come la politica funziona a tutte le latitudini: quella che è percepita come roba di donne viene tirata in ballo in un senso e nell’altro a seconda dei giochi politici del momento mentre le donne stesse si ritrovano senza voce in capitolo. Le vicende recenti del nostro PD che forse più di ogni altro partito ha fatto del sostegno alle donne una bandiera lo mostrano chiaramente: si va dallo spettacolo dato a suo tempo in diretta da Renzi che “ritira” dal governo le “sue” due ministre alla formazione di un governo nuovo in cui di donne del PD non ce n’è nemmeno una ai vertici. Ed è tutto da dimostrare che la presenza delle donne in ruoli determinanti al governo sia meno importante, dal punto di vista della lotta alla violenza contro le donne, di quanto non lo sia l’adesione ad un trattato internazionale in materia.
E’ verosimile che Erdogan, il quale, non dimentichiamolo, ha pur sempre alle spalle una maggioranza parlamentare e ne ha bisogno se vuole conservare il potere, con il ritiro della Turchia dalla Convenzione abbia cercato di consolidare una maggioranza da tempo fragilizzata dall’erosione dei voti all’AKP. Verosimile anche che sia andato a cercare consensi nei settori convenzionalmente definiti “conservatori” della popolazione. In ogni caso, a puro rigore di logica deduttiva, è verosimile che egli speri che un domani, soprattutto in caso di elezioni anticipate come da pronostici di molti analisti, questa mossa porti all’AKP più voti e non che gliene faccia perdere.
Tutto questo riflette le regole della politica in una democrazia, come del resto lo riflettono la perdita dei voti dell’AKP, e soprattutto la perdita di alcune grandi città, Istanbul stessa tra tutte. Ma di tutta evidenza le cancellerie occidentali, e i poteri che contano, continuano a preferire dittatori che si fanno plebiscitare con maggioranze bulgare. Spiace che ad essi si accodino le donne come l’europarlamentare Pd Pina Pricierno che con coraggio da leone definisce Erdogan “dittatore liberticida e pericoloso criminale”. Non risulta che i dittatori affrontino le urne e perdano voti come ha fatto Erdogan. Ma non ho mai visto donne del Pd scendere in piazza per protestare contro Al-Sisi che trattava da puttane le donne di piazza Tahrir e le sottoponeva a “test di verginità”. Né contro il modernizzatore principe saudita Mohamed Bin Salman che oltre a fare a pezzi i giornalisti dell’opposizione mette in galera le attiviste che hanno osato guidare un’automobile.
In Turchia le donne guidano da tempo. In Turchia il velo non è obbligatorio, come invece lo è in Iran dove però non mi sembra che di questa roba da donne papa Francesco abbia parlato con Al-Sistani. Ma soprattutto in Turchia le donne manifestano, cosa che non fanno a Riad e non fanno più al Cairo (lo facevano invece al tempo di Morsi). In Turchia vi sono “roccaforti laiche” come Kadikoy, in realtà un bel quartiere sulla sponda asiatica, con zone popolari in via di gentrificazione a ridosso dei moli e zone di recente costruzione in cui pare di trovarsi a New York. Vi sono università laiche in cui insegnano femministe con dottorati ottenuti in Europa. E vi sono quartieri ultrapopolari, quartieri informali prodotti da un massiccio esodo rurale dove si ammassano popolazioni che vengono dall’interno.
Nei primi ovviamente troviamo donne con una visione che convenzionalmente definiamo moderna, nei secondi donne con una visione che altrettanto convenzionalmente definiamo tradizionalista. Il censo molto spesso è il fattore che fa la differenza. Ma altrettanto importante è il fattore religione. Non è vero che le famiglie musulmane praticanti impediscano alle ragazze di studiare: per anni il cruccio di queste famiglie e di queste ragazze è stato il divieto di portare il velo all’università (ai tempi dei regimi laico-militaristi). Alcune per aggirare il divieto di coprirsi il capo portavano delle parrucche.
In Turchia di politiche pubbliche “in ottica di genere” – espressione che nel significato a suo tempo datole dalla UE significa “obbligo di valutare per ogni provvedimento di policy l’impatto atteso rispettivamente per uomini e donne” – si discute da tempo. Come tutte le politiche serie in materia sono controverse perché si tratta quasi sempre di “azioni positive”, ovvero di azioni che contrastano la neutralità delle leggi, oppure di azioni che si misurano con la costruzione di genere, vale a dire i diversi modelli di costruzione sessuata dei ruoli sociali (che esistono in tutte le società).
Tanto per fare qualche esempio. Erdogan ha riconosciuto un salario alle persone, ovvero alle donne, che in famiglia svolgono il ruolo di caregivers, cioè si occupano di anziani e disabili. Le donne in questione ovviamente hanno apprezzato questo riconoscimento ufficiale di una attività che svolgono da sempre gratuitamente. Nei ranghi di una borghesia più colta e laica la misura è stata criticata perché tenderebbe a inchiodare le donne al loro ruolo tradizionale e anche questo è un argomento interessante. Ma come escludere che dal punto di vista della lotta contro la violenza verso le donne dare loro un riconoscimento anche economico, e quindi anche una certa indipendenza, abbia un impatto positivo, in attesa che diventino tutte docenti universitarie? Del pari, alcuni anni fa, quando insegnavo presso la Marmara University, era in corso una discussione su un’altra micro-policy: una norma che riserva l’accesso ai giardini pubblici, in certe ore del giorno, alle sole donne. Si crea un ghetto hanno tuonato alcune. Ma il risultato è che si sono viste donne sole godersi il sole nei giardini primaverili.
E’ in questa Turchia reale – non quella immaginaria e orientalista che ci propinano i media – che va inserita la discussione intorno al ritiro del paese dalla Convenzione di Istanbul. Prima di affrettarsi a dichiarare solidarietà “alle donne turche” senza se e senza ma le varie associazioni di donne nostrane dovrebbero chiarire di quali donne stanno parlando.
Perché dispiace doverle informare che esistono anche donne che del ritiro in questione sono contente. I famosi “circoli conservatori” che dovrebbero sostenere Erdogan alle prossime elezioni sono fatti, anche se qualcuno sembra dimenticarlo, da uomini e donne. E occorre anche ricordare che in un paese in cui il voto è regolare il voto delle donne conta quanto quello degli uomini.
Ma soprattutto – in nome della tanto invocata onestà intellettuale – prima di stracciarsi le vesti sull’impatto disastroso del ritiro del paese dalla Convenzione occorrerebbe fare un serio monitoraggio dell’impatto della convenzione sulla violenza contro le donne. I dieci anni trascorsi dalla sua firma sarebbero un momento adatto per metter mano alla faccenda. La quale è tutt’altro che semplice: occorre distinguere tra firma e ratifica, ratifica e implementazione. E nell’implementazione occorre valutare il peso dei diversi attori: non solo il governo ma il sistema amministrativo (comprese le forze di polizia) e il sistema giudiziario con i suoi orientamenti giurisprudenziali. Non a caso i paesi si sono mossi diversamente nel processo di ratifica della Convenzione.
Basta poi dare un’occhiata ai documenti preparatori alla stesura finale della Convenzione, in particolare agli emendamenti proposti da vari paesi tra cui Italia e UK, nonché alle critiche mosse da Amnesty International alle bozze preliminari, per capire la complessità di una Carta che vuole garantire a tutte le donne gli stessi standard di protezione contro la violenza – e fin qui tutto bene – attraverso lo strumento dell’armonizzazione della legislazione. Problema, questo, non da poco, tenendo contro anche semplicemente della diversità di modelli giuridico-amminsitrativi in seno alla stessa UE, soprattutto di qua e di là dalla Manica, tanto che lo stesso Regno Unito non ha ancora ratificato la Convenzione dichiarandosi “non pronto” ad essere giuridicamente vincolato dai suoi contenuti (e nel frattempo è uscito dalla Ue).
In Italia avvocati impegnati in prima persona nell’assistenza alle donne vittime di violenza segnalano i dubbi che stanno emergendo riguardo all’efficacia di alcuni contenuti della Convenzione, ad esempio l’esclusione automatica del ricorso alla mediazione familiare. Una norma che sul piano teorico ha solide fondamenta ma che sul piano pratico può rivelarsi troppo rigida. E non a caso, una di quelle che in Turchia da tempo veniva criticata. Poi, naturalmente, sappiamo che il ricorso alla mediazione è un’arma a doppio taglio. Ma ormai sappiamo anche che spesso il problema sta a monte, per esempio nella formazione delle forze di polizia le quali – non meno degli imam o dei parroci – tendono a fare da pacieri quando non è il caso, mettendo a rischio le donne o scoraggiandole dal fare denuncia.
La realtà è che un serio monitoraggio dell’impatto della Convenzione in questi dieci anni non risulta sia stato fatto. Se, come viene affermato da più parti, violenza e femminicidi sono in aumento – anche al netto del fattore lockdown da epidemia covid 19 – sul suo impatto è ora di interrogarsi. Questo non significa affatto che sia da buttare via: tuttavia forse è giunto il momento di darne delle valutazioni e pensare ad aggiustamenti che ne aumentino l’efficacia. Anche perché alcuni paesi ci stanno già pensando per i fatti loro, in primis la Polonia (vedi Daniele Ranieri sul Il Foglio del 24 marzo) sempre che non decida di uscire dalla Convenzione, seguendo a ruota la Turchia.
La convergenza delle posizioni turche e polacche dovrebbe perlomeno mettere uno stop a quanti in questi giorni si sono affrettati a tirare per la manica le donne musulmane affinché si pronuncino – non in quanto donne ma in quanto musulmane – sulla mossa, squisitamente politica, di Erdogan. Alcune ci sono cascate e dispiace: mostra ancora una volta come le donne musulmane, in quanto donne e in quanto musulmane, sono ceto doppiamente subalterno desideroso di guadagnarsi l’approvazione sociale (sui leader musulmani che seguono la stessa via non merita parlare).
Molto più interessante sarebbe il chiedersi cosa hanno in comune da un lato la Turchia, dall’altro il blocco dei paesi dell’Est costituito da Bulgaria, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Lettonia, Lituania. Forse le radici di questa convergenza vanno individuate a partire da un approccio storico di “lunga durata” per riprendere l’espressione della celebre scuola francese delle Annales.
Risalendo all’indietro, troviamo la laicizzazione forzata imposta a popolazioni credenti, e prima ancora la dissoluzione traumatica di imperi, e prima ancora quegli imperi stessi, crogiuoli multiculturali di popoli e fedi, lingue e costumi, di volta in volta sedi di conflitti e di pacificazioni in nome della religione.
In fin dei conti la Convenzione di Istanul non è un trattato commerciale e nemmeno un trattato di pace. Si parla di rapporti tra i sessi e di famiglia. E non stiamo parlando di una immaginaria “famiglia tradizionale” né di un monolitico “patriarcalismo” da molti assimilati ad un semplice “maschilismo”. Stiamo parlando di strutture archetipiche dell’umanità, di immagini del maschile e del femminile declinate nella infinita varietà delle esperienze storiche, culturali e personali di popoli e individui. Forse il voler imporre a queste realtà – per perseguire obiettivi ottimi – analoghi strumenti, soprattutto quelli giuridici, che sono particolarmente rigidi e astratti, e lo sono ancora di più se radicati nelle istituzioni del diritto romano che rappresentano solo una parte di ciò che impropriamente si chiama “Occidente”, si sta rivelando una scelta non priva di debolezze.
Se poi all’interno di questa scelta sono stati infilati – più o meno surrettiziamente o compromissoriamente non importa – contenuti voluti da chi in buona o malafede pensa di poter distruggere da un giorno all’altro ciò che per i credenti è l’ordine divino del creato e per i non credenti è stato fino a ieri l’ordine della natura e della psiche umana, ovvero quegli archetipi del maschile e del femminile oggi ridotti alle etichette di “persone binarie e non” o “genitori 1 e 2” e simili amenità, allora non dovrebbero stupire le reazioni di rigetto che si stanno manifestando.
Che non si tratti di questioni marginali lo si evince guardando ancora una volta i documenti preparatori alla Convenzione. Che la Turchia abbia firmato la Convenzione senza capirne a fondo i contenuti o sottovalutando l’impatto di certe espressioni come “orientamento sessuale” e “identità di genere” a fronte dell’obiettivo politico di entrare in Europa (altroché desiderio di “allontanarsi dall’Occidente”!) non è poi così rilevante. Molto più importante è chiederci cosa ne facciamo, oggi, di tutte le questioni reali e rilevanti che l’atto della Turchia solleva e che ci riguardano tutti, donne e uomini. Se invece si preferisce andare avanti in una battaglia ideologica i cui scopi politici nulla hanno a che fare con l’interesse delle donne, allora per favore non lo si faccia in nome delle donne. E non caschiamoci, come donne.