La lotta dei ristoratori e la Repubblica fondata sul cibo

Pericolosi assembramenti saltano di nuovo all’attenzione. E per una volta non si tratta di negazionisti, sciamani o complottisti. Chi sono costoro che osano cimentarsi nella protesta? Arrivano i commercianti e il comparto trasporti mentre il mondo dello spettacolo preferisce occupare teatri, che in fondo fuori, all’aperto fa ancora freddo. Ma prima di tutti, i più disperati e coraggiosi sono stati loro: i ristoratori.

Tenuti in vita dall’aleatoria flebo statale, i ristori a loro dedicati, alcuni l’hanno presa alla lettera, sin son ristorati e riposati. Altri si sono aggrappati alle due ruote dei rider per asportare la noia del non lavoro e far continuare a girare soldi e cibo. Molti sono semplicemente falliti. All’inizio avevano detto loro di ridisegnare i locali. Allora i ristoratori si son messi subito a lavoro. Una nuova geometria fondata sul distanziamento e su un design al plexiglas, dal discutibile valore estetico e dalla grande efficienza igienica, aveva mantenuto in vita in un sol colpo il loro habitat, la loro professione e il loro status esistenziale. I ristoratori sembravano salvi.

Passata l’estate, una nuova insidia si è abbattuta sul loro capo. Al venerdì è stato istituito il Gabinetto del dottor Speranza e dei tecnici, membri del CTS. Non si tratta di un film espressionista tedesco degli anni ’20, né di una commedia demenziale italiana degli anni ’80. È invece la settimanale riunione con cui si disegna e ridisegna la nuova cartina geopolitica del paese. Ecco che i ristoratori restano costantemente appesi ai succhi gastrici che digeriscono numeri e dati, sulla scia di un peculiare algoritmo statale. Allora chiudono e aprono, asportano e trasportano, insultano e falliscono a settimane alterne senza la possibilità di ponderare scorte alimentari e personale umano da assumere e licenziare.  

Si dirà: ci sono un’infinità di altre categorie danneggiate, dalle estetiste agli albergatori, da quelli che lavorano nei settori sportivi (come palestre o piscine) alle aziende di trasporti. Fino ad arrivare alle due categorie regine: le Partite Iva, e gli operatori dello spettacolo e addetti alla cultura. La terribile rivolta delle Partite Iva. Ve lo immaginate un titolo del genere? Una rivolta che sarebbe poco credibile se non ridicola se gli slogan e le definizioni ancora hanno un senso. Sarebbe come assistere ad una parte del Cud che si anima e si fa carne ed ossa oppure immaginare che un insieme di monadi orgogliose di essere libere e professioniste, all’improvviso riscoprano il piacere di sentirsi categoria e collettività. Una protesta impossibile a nascere. 

Passiamo alla macrocategoria degli operatori dello spettacolo e degli addetti alla cultura. Una definizione così lunga che infonderebbe noia soltanto nel trascriverla sui verbali delle questure o sulle prime pagine dei giornali. Pare una ditta di impiegati alla futilità. E magari può funzionare in Francia dove ancora credono alla cultura, ma qui da noi sembra surreale. Se protestassero nessuno li seguirebbe. 

E invece c’è una cosa in cui crediamo, di cui siamo orgogliosi e ci vantiamo fino all’ultimo giorno della nostra vita. Dante, Fellini, Leopardi, De André? Oppure Goldoni da secoli messo in scena per un pubblico imbalsamato e si spera ormai vaccinato? Macché, il cibo!

D’altronde l’Italia in fondo è una Repubblica fondata sul cibo e sulla convivialità; l’ultimo dei valori rimasti, per fortuna duro a morire.

Ma non è solo per questo che i ristoratori fanno notizia. È perché ci rappresentano. Tra di loro puoi trovare il piccolo venditore di strada, il ristorante per turisti, quello dozzinale e noioso, la trattoria antica, il ristorante etnico e modaiolo, oppure lo chef stellato. Insomma dentro c’è tutto. Chi spadella cibo unto e malsano per i passanti, chi trae giustamente profitto dall’ingenuità turistica, chi sfama con pochi soldi, chi perpetua le tradizioni di una società scomparsa chi elogia la fusione e la multiculturalità oppure chi fa del cibo un’arte aristocratica destinata a portafogli molto borghesi. Teatro, cinema, cultura, sport possono vantare un tale eterogeneo amalgama? 

E poi tutti prima o poi partecipano o vivono in prima persona una conversazione giovanile, talvolta anche matura in cui si sogna di aprire un bar o un ristorante per dare una svolta alla propria vita. Certo, poi ci si scontra con l’italica tassazione e si cambia idea. Ma chi chiacchierando davanti a un caffè, sognerebbe mai di aprire un cinema, un teatro o una piscina?

La ristorazione fa parte dell’italianità, dal sogno del riscatto proletario al pragmatico arricchimento imprenditoriale; per questo la Protesta dei Ristoratori si impone e si imprime nell’opinione pubblica, fa notizia e ne trascina altre dietro si sé. 

Chi si risente davanti a tali proteste pensa: che massa di opportunisti e avidi. Protestano solo per i soldi dopo che hanno scroccato i ristori statali e quindi le nostre tasse! E poi potrà ancora ripetere che in fondo loro almeno hanno l’asporto. Certo può funzionare in America o in un paese qualunque retto da incipiente ignoranza alimentare. Ma se in Italia il cibo è l’ultimo dei valori, di conseguenza è anche l’ultima delle virtù casalinghe. E quindi che incidenza può avere l’asporto che, congenitamente privo della convivialità, toglie qualunque senso al lavoro della ristorazione?  

Il ristoratore ci rappresenta, inutile fingere il contrario. E se non ha più da mangiare, chi sfamerà la nostra cultura?