Il tema della maternità surrogata è stato oggetto di un acceso dibattito negli ultimi anni fra chi sostiene che la pratica rappresenti una minaccia al diritto dei figli di crescere con i propri genitori biologici e sia una porta potenziale verso l’abuso potenziale nei confronti di molte donne in situazione di povertà e chi invece pone come prioritario il diritto per chi non può avere figli di averli tramite gli strumenti offerti dalla scienza e dalla tecnologia.
In una democrazia sana questo deve considerarsi un tema serio da dibattere e discutere a livello democratico, sociale, e politico permettendo a tutte le parti coinvolte di presentare il proprio punto di vista e di ascoltare i punti di vista contrastanti per arrivare ad una decisione che permetta alla società di progredire in modo funzionale integrando i diversi punti di vista e sintetizzandoli in azioni politiche positive per il maggior numero di cittadini.
La proposta di legge presentata da Guia Termini, Doriana Sarli, Riccardo Magi, Nicola Fratoianni ed Elisa Siragusa mira a legalizzare la maternità surrogata con ripercussioni non poco rilevanti anche a livello culturale. Questa proposta di legge ha infatti importanti punti di contatto con il DDL Zan.
È sintomo di una democrazia problematica d’altro canto che le opinioni ed i punti di vista alternativi vengano demonizzati e tacciati di bigottismo e fobia. Simili critiche sono state sollevate nel caso del DDL Zan in Italia ma anche con più forza all’estero con leggi che limitano la parola dei cittadini come nel caso dell’uso dei pronomi alternativi per riferirsi agli LGBTQI+, pena la prigione.
Il recente articolo di ‘La Repubblica’ sulla proposta di legge Termini è un tale esempio. L’articolo, lungi dall’utilizzare un tono neutrale, utilizza quelli che sono stati definiti come veri e propri neologismi da neolingua orwelliana parlando di “gravidanza solidale” ed implicitando che il non accettare tale pratica nel nostro ordinamento significa essere ostili in qualche modo nei confronti di chi non può avere figli per un motivo o per l’altro.
‘La Repubblica’ è spesso oggetto di critiche per la forte componente ideologico-progressista con la quale affronta il dibattito pubblico su temi sensibili. Nonostante avere un certo orientamento sia fisiologico nel giornalismo, il recente articolo sulla maternità surrogata ha suscitato più critiche del solito proprio per l’utilizzo del neologismo.
Furono i greci ad insegnarci le tecniche della retorica e della dialettica tali da, come ricorda il Gorgia di Platone, portare un falso dottore con buona dialettica ad essere più apprezzato di un vero dottore con scarsa dialettica e retorica. È semplice per la posizione alternativa minare quella progressista in materia di maternità surrogata parlando di ostilità nei confronti dei figli e delle madri biologiche trattate come schiave, del carattere perverso e carico di hubris tale da quantificare in termini monetario la gravidanza, la maternità, ed il naturale ed imprescindibile legame affettivo che ha anche carattere sacro e metafisico per molti lettori.
È ugualmente facile demonizzare la posizione progressista promossa da La Repubblica con fare ideologico e propagandistico identificandola come un nuovo tipo di proto-dittatura in nuce che mira a soffocare l’opposizione con la demonizzazione a priori.
È da questa mancata disponibilità di dialogo, confronto, ed anche dibattito, che si sviluppano posizione bizzarre e complottistiche fra persone che poi vengono tacciate di stupidità e bigottismo. A riprova di ciò anche la destra ha adottato di recente simili tattiche con interviste ai gay pride mirati a mostrare la stupidità degli aderenti. Due facce della stessa medaglia.
Parlare di soluzioni a questo problema è complesso. La democrazia ha fatto il suo corso e non è abbastanza resiliente da funzionare nell’era dei social? O forse è proprio un’alternativa alla democrazia che con restrizioni rosa ed arcobaleno schiva il dibattito imponendo una narrativa univoca?
È sufficiente forse denunciare ove possiible queste istanze avvengono per garantire che almeno il tentativo di evitare il dibattito pubblico fallisca e che un discorso pubblico su un terreno livellato ed equo abbia luogo. La riflessione invece sul perché alcune posizioni vogliano evitare il dibattito in toto rappresenta un altro paio di maniche.