Nel periodo più buio della mia esistenza, pochi anni dopo il mio trasferimento forzato in Sudafrica, fu il testo di un brano di Franco Battiato, “Il Re del Mondo” – titolo che ricalca quello di un famoso testo del pensatore francese René Guénon, pubblicato in Italia dalla Adelphi – a spingermi a cercare, nella biblioteca centrale (la Wartenweiler) dell’università di Johannesburg in cui studiavo all’epoca, materiale riguardante questi esseri sconosciuti, “i Sufi”. Chi erano costoro?
E fu, quella, la scintilla che mi portò a scoprire il mondo dell’Islam e a intraprendere il viaggio esistenziale al centro della mia vita.
Da questo aneddoto, possiamo estrarre molte lezioni essenziali.
Al di là del giudizio definitivo che possiamo formulare sul percorso spirituale di Battiato e sulle sue scelte ultime, ha avuto il merito chiaro di essere un magnete che ha attratto diverse persone verso una dimensione spirituale e intellettuale più estesa, un catalizzatore di forze ed energie più o meno latenti, uno strumento per il compiersi del Suo Atto predestinato.
È improponibile, in Occidente, proporre un approccio all’Islam che sia antitetico e ostile alla genialità europea intimamente legata all’arte e all’espressione artistica.
Il Sufismo rappresenta un portale chiave per l’affacciarsi all’Islam di numerosi occidentali.
“Il Re Del Mondo” faceva parte del brillante disco di Battiato “L’Era del Cinghiale Bianco”, titolo desunto dal simbolismo della tradizione iperborea e indoeuropea (il “cinghiale bianco” è la raffigurazione mitica della forza sovrannaturale che prevale sul mero potere temporale; e Battiato ha sempre mostrato insofferenza verso le bassezze dei poteri temporali di questa epoca decadente, non solo durante la sua breve e tempestosa esperienza come assessore ai beni culturali nella giunta Crocetta).
Data però da molti anni prima il mio incontro con la musica di Battiato, dal suo primo disco maturo, dopo gli sperimentalismi di “Fetus” e “Pollution”, “Sulle Corde di Aries”, un gigantesco salto in avanti, che folgorò me e mio fratello, col titolo, la copertina, la musica, la poetica. Emblematico al riguardo il brano “Da Oriente a Occidente”, che univa tutta la mia attrazione e i miei legami istintivi con il mondo orientale e il bisogno di raccordare ciò al mio sentire e background di occidentale.
Il successivo album, “Clic”, Battiato lo dedicò al compositore classico-contemporaneo Karlheinz Stockausen. Battiato padroneggiava una grande quantità di input artistici, e in questi due dischi l’influsso del minimalismo e dell’aleatoria desunta da John Cage risultava più marcato, sempre filtrata però da un’estetica personalissima radicata nella magia della natia Sicilia – che lascia una traccia indelebile sia nei testi che nelle atmosfere musicali, come in “Sequenze e Frequenze” (Quell’inprinting minimalista – ma anche della psichedelia britannica – impregna di se la sua partecipazione al supergruppo progressive “Telaio Magnetico”).
In “Clic” spiccava “No U-Turn”, molto autobiografica, dove Battiato citava il ricorso deliberato alla schizofrenia come cura alla volontà di morte successiva all’auto-deprecazione dei suoi esordi da canzonettaro superficiale (Decenni dopo, nella compilation “Le Stagioni del Nostro Amore”, vennero pubblicate alcune delle canzoni di quel periodo degli anni sessanta, che rivelavano già un certo sarcasmo congenito e la refrattarietà a legami sentimentali borghesi).
Quella musica sperimentale era un vento fresco, originalissima, qualcosa di mai sentito prima.
Un’altra caratteristica marcata di quel Battiato, che in fondo rimase sempre con lui e me lo fece apprezzare ancor di più, era quella di voler “épater le bourgeois” (frase nata coi poeti decadentisti francesi), sbalordire il borghese con atteggiamenti spregiudicati e anticonformisti.
La sua musica e le sue esibizioni erano spiazzanti.
In Francia – terra di rivoluzioni – è stato forse amato di più sin da subito (e non a caso in “Giubbe Rosse” il nostro inserì brani da un concerto francese).
Da “M.elle ‘Le Gladiator’”, iniziò il periodo cerebrale di Battiato – comprendente alcune perle come “Cafè-Table-Musik” e “Su Scale” (un pezzo sbalorditivo) – ed altre cose ermetiche che strizzavano l’occhio a certa musica contemporanea arida, come “Zâ” e “L’Egitto Prima delle Sabbie”.
Battiato era diventato un’artista di nicchia, sparito anche dal radar della contro-cultura giovanile e del movimento underground con cui aveva mantenuto a lungo contatti più o meno profondi.
Su “Lanciostory”, di cui mio padre era assiduo lettore, “Sergio Loss” lo pizzicava per il fatto di comporre musica incomprensibile ai più, nonostante l’indiscusso talento (Qualche anno dopo, ironicamente, Battiato stesso si liberò di tale fardello elitario cantando “La musica contemporanea / mi butta giù”).
Grande fu la mia sorpresa quando, nella mia ultima stagione prima del trasloco in Sudafrica, mi imbattei alla radio nel pezzo “L’Era del Cinghiale Bianco” dal disco omonimo, un capolavoro dove l’idiosincratica e inimitabile originalità di Battiato si sposava a una comprensibilità molto più ampia.
E in quell’ultimo anno di liceo, quando compagni di classe e amici mi chiedevano chi fosse il mio musicista italiano preferito – in epoca in cui impazzavano i Rockets e Gianni Togni – rispondevo “Battiato, e poi Branduardi”, e si mettevano puntualmente a ridere, e mi punzecchiavano e prendevano in giro (salvo poi, dopo “La Voce del Padrone”, spedirmi lettere in cui si cospargevano il capo di cenere e facevano ammenda).
Con “L’Era del Cinghiale Bianco” si apre la grande stagione della collaborazione fra Battiato e Giusto Pio, ed è in quel periodo che Battiato si avvicina maggiormente al sufismo, come documentato nel bel libro di Guido Guerrera “Franco Battiato – un sufi e la sua musica” con prefazione di Franco Cardini (Shakespeare and Company Florentia, 1994).
In questa fase, Battiato passa del tempo con i Dervisci turchi, e compie viaggi illuminanti in Tunisia e in altri paesi.
In “Patriots”, una delle sue vette artistiche, troviamo “Le Aquile” – su testo della scrittrice svizzera Fleur Jaeggy, fredda ma incisivamente tagliente, anche lei della scuderia Adelphi –, poiché le aquile aiutano l’anima a volare sempre più in alto, senza farsi impaurire dalle vertigini metafisiche. È un tema che l’artista riprenderà in più di un brano, da “Gli Uccelli” a “Le Aquile non Volano a Stormi”. L’impronta del Sufi Farīdud-Dīn ‘Attār e del suo celeberrimo “Mantiq at–Tayr” (“Il Linguaggio degli Uccelli”), che richiama la storia Coranica di Re Salomone – la pace sia con lui – è piuttosto evidente.
In “Nomadi”, cover dello splendido brano del mistico Yuri Camisasca, ritiratosi in un monastero, possiamo quasi percepire una trasposizione musicale del famoso hahīth “Sii in questo mondo come fossi un forestiero o un viandante”.
Si segnala anche, in questa epoca (che ci ha regalato indimenticabili collaborazioni artistiche con Alice, Giuni Russo e Milva), il famoso “Concerto di Baghdad”, che raggiunge sommità artistiche indiscutibili in brani come il Trio dal II Atto della sua opera “Gilgamesh” e “Fog An Nakhal” (“Sopra la Palma”), già incisa in studio e pubblicata in “Cafè de la Paix”. Fu coraggiosamente l’unico artista europeo di spicco a offrire la sua voce contro le ipocrite sanzioni anti-Saddam.
Era questa l’epoca in cui tanti musulmani europei si aspettavano e desideravano fortemente un annuncio inequivocabile dell’entrata di Franco nell’Islam.
Così non fu.
Si accentuò sempre di più in lui l’adesione alla visione Gurdjeffiana (d’altronde, il Cafè de la Paix della Ville Lumière fu famoso centro di ritrovo di Gurdjeff e della sua cerchia), il sincretismo esoterico (in “Vite Parallele”, il musicista si definì “bugiardo e infedele”, e in “I’m That”, da “Dieci Stratagemmi”, dice di sé stesso “I′m neither Muslim nor Hindu / Nor Christian nor Buddhist”) e le spinte reincarzioniste.
Né giovò in tal senso la stretta collaborazione col filosofo siciliano Manlio Sgalambro, che considerava l’oriente il “non-pensiero”.
Ci piace però pensare che Dio lo accolga nella Sua Rahmah ( Misericordia), e lo ricompensi per il suo maggior pregio, quello su cui ci siamo soffermati all’inizio di questo nostro piccolo contributo: quello di essere stato un trampolino di lancio per occidentali in cerca di un significato profondo della vita e insofferenti verso una mediocrità piccolo borghese che aleggiava tutto intorno a loro dalla nascita, un trampolino verso orizzonti perduti nella discesa dal Giardino, verso mondi lontanissimi.