Le parole di guerra di un rabbino italiano e il bisogno del dialogo contro l’odio

Gli arabi comprendono solo il linguaggio della forza: più concessioni fai loro, più alzano pericolosamente il capo; perciò l’ipotesi di coinvolgere democraticamente gli arabi israeliani in una coalizione al governo di Israele sarebbe “in contrasto con gli ideali che i padri del sionismo ci hanno da sempre insegnato”. Provare a “trovare comprensione fra le nazioni” non ebraiche sarebbe inoltre una “illusione” per gli ebrei – anzi, una vera e propria “impossibilità teologica”, poiché l’antisemitismo non sarebbe una pur seria problematica socio-culturale, da contrastare costruttivamente sul piano della società civile, bensì un irrimediabile “archetipo, che permane nell’inconscio collettivo di centinaia di milioni di persone”, poiché “per la halakhah è noto che Esaù odia Ya’aqov” (Rashì a Bereshit 33,4), e questa è una “asseverazione assoluta, irrevocabile”.

Una volta riconosciuta la realtà per ciò che è”, si può quindi “proseguire pure il dialogo, per evitare che l’inconscio [presunto antisemita] dei popoli tracimi nel conscio con tracotanza”, ma solo come espediente strumentale, cioè “a condizione di accettare gli sforzi diplomatici solo come metodo, e non come sistema, prendendo [soltanto] il buono che ci viene di volta in volta offerto”, poiché “si può indorare la pillola, mai eliminarla”. 

Non si tratta del messaggio di un oscuro predicatore radicale, ‘postato’ su un forum estremista, a travisare insegnamenti antichi nelle menti di giovani impressionabili; sono le dichiarazioni di un noto rabbino italiano, rav Alberto Moshe Somekh, pubblicate sul sito istituzionale delle comunità ebraiche del nostro Paese, a commento degli scontri inter-etnici nei Territori occupati di Palestina e dei bombardamenti israeliani di questi giorni sulla Striscia di Gaza.

Nell’incipit del suo intervento, rav Somekh rievoca le “parole irripetibili” udite da parte di un arabo israeliano, il caposala di un grande albergo a Gerusalemme, alla notizia dell’entrata in coma di Ariel Sharon nel 2006, commentandole sprezzantemente: “Non ti vergogni di sputare nel piatto in cui mangi? Decine di camerieri qui dentro stanno ogni giorno ai tuoi ordini: chi saresti tu oggi, se non fosse stato per lui e per ciò che egli rappresenta?”. 

Rav Alberto Moshe Somekh

Se un arabo è caposala “in livrea verde con i gemelli ai polsini” a Gerusalemme, e se ha addirittura “decine di camerieri ai suoi ordini” (‘perfino’ non arabi?) non sarebbe – secondo il rabbino – per le sue qualifiche e per il meritato esito di un normale impegno professionale, bensì ‘grazie’ a Sharon ed a “ciò che egli rappresenta”. E cosa rappresenta? Secondo il sociologo israeliano Baruch Kimmerling, “il più brutale, ingannevole e sfrenato di tutti i generali e politici israeliani, ed uno dei leader più spaventosi del nuovo millennio”, i cui “tratti distintivi – secondo lo storico israeliano Avi Shlaim – sono la menzogna, la più selvaggia brutalità nei confronti dei civili arabi, ed una pervicace predilezione per la forza rispetto alla diplomazia”: un impunito criminale di guerra, secondo il diritto internazionale e come denunciato da Human Rights Watch; “Macellaio di Beirut” per le responsabilità nell’efferato eccidio di Sabra e Chatila e “Bulldozer” del colonialismo sionista in Cisgiordania, nonché fattore delle mura di separazione morale e materiale erette nella Palestina occupata, e latore dell’idea falsa e nociva per cui “non vi sia alcun interlocutore per la pace” fra i palestinesi. 

Pubblicate nelle ore in cui i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza sono – secondo il resoconto di ‘Medici senza frontiere’ – “di un’intensità e violenza senza precedenti, [..] terrificanti sia di giorno sia di notte”, tanto da indurre il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres a dichiarare che “se c’è un inferno sulla Terra, questo è la vita dei bambini a Gaza”, le parole ed i riferimenti sprezzanti di rav Somekh non sono purtroppo isolati: le violenze di queste ore hanno fatto trapelare, invece, un disagio ed una violenza diffusi. 

Si veda quanto accaduto ai giovani ebrei italiani che, nei giorni scorsi, avevano sottoscritto una lucida denuncia delle violenze e dell’apartheid messi in atto dalle istituzioni israeliane, pubblicata anche dal ‘Manifesto’: ragazzi e ragazze che – secondo le parole di un giornalista ebreo italiano, Stefano Jesurum, che pure ha liquidato la loro iniziativa come “una sciocchezza inopportuna, controproducente ed offensiva” – sono stati resi bersaglio di un “massacro inaccettabile e squadrista” in seno alle loro comunità, tale da far levare appelli (isolati, e perlopiù inascoltati) “ai vertici comunitari e ai rabbanìm per fermare le ondate di odio, che dalle nostre fila aggrediscono troppo spesso correligionari che non si adeguano al mainstream [filo-governativo delle politiche di Netanyahu]: un miscuglio di metodologia squadrista, insulti ignobili ed intrusione in dati personali privati”, con la frequente accusa di essere troppo “integrati” e “minacce anonime di stupro e morte”.

I giovani ebrei italiani contro l’occupazione

Ciononostante, perfino i latori di questi appelli alla ‘moderazione’ hanno tenuto a specificare che comunque “il grande errore iniziale è il loro, ma sono giovani e sapranno rimediare”, con qualche forme di ‘ravvedimento’ o abiura delle loro critiche – che, secondo la presidentessa delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, non dovrebbero in primis essere “comunicate in italiano agli italiani”. 

E’ forse giunto il tempo di prendere atto che vi sia un problema, e che riconoscerlo sia il primo passo per emendarlo. Dopo aver esercitato una secolare violenza antisemita contro le comunità ebraiche, fino all’acme genocidario dell’Olocausto (Shoah), le società europee hanno pensato di poter ‘espiare’ le proprie colpe e ‘risarcire’ il popolo di Israele assecondando la costituzione di un ‘focolare nazionale ebraico’ in Palestina – di fatto, ‘chiudendo gli occhi’ dinanzi alla catastrofica espropriazione (Nakbah) della popolazione araba locale, e pensando di poterne ‘condonare’ la violenta pulizia etnica da parte dei coloni sionisti.

Il progetto si è dimostrato fallimentare – per la legittima, pervicace resistenza palestinese allo sradicamento – e finanche controproducente: non solo per le popolazioni del Vicino e Medio Oriente, cui l’ingerenza dell’Occidente ha contribuito ad arrecare decenni di lutti ed instabilità; ma anche ed innanzi tutto per la stessa popolazione ebraica, la cui violenza patita ed introiettata in Europa non solo non è stata affatto alleviata né risanata, bensì ha finito per sedimentare e depositarsi in profondità, intossicando sia il rapporto con gli altri (il cui “odio” è ora considerato una “asseverazione assoluta, irrevocabile” di carattere metafisico, e con cui “dialogo e sforzi diplomatici” valgono dunque “solo come metodo, e non come sistema”), ma anche le relazioni interne alle stesse comunità ebraiche (afflitte perciò da “ondate di odio” dalla “metodologia squadrista” verso i “correligionari che non si adeguano”).

Chi oggi assecondi incondizionatamente le politiche suprematiste dei governi più estremisti della storia israeliana, dunque, non sta affatto ‘ripagando il proprio debito’ storico verso la popolazione ebraica, per le persecuzioni precedentemente inflitte sul territorio europeo; al contrario, questo debito lo sta perfino aggravando, acconsentendo ad esasperare quelle successive, “ignobili ondate di odio” che avvelenano tanto le nuove vittime della violenza, che le patiscono in una soggezione pressoché totale, quanto quelle antiche, che le infliggono con un’impunità pressoché completa. 

Una volta riconosciuto il problema – che di fatto si pone su un piano pre-politico, e perfino pre-ideologico – potremo infine provare ad operare per emendarlo insieme; poiché, lungi dall’essere soltanto un espediente strumentale, nel dialogo con l’altro (anche e soprattutto se, momentaneamente, avversario) già vibra la cura alla disperazione dell’ostilità. Allora, potremo volentieri rassicurare rav Somekh che – nonostante quello che “è noto per la halakha” – Giacobbe ed Esaù potrebbero infine riuscire a rappacificarsi, e che non solo non bisogna temere che l’altro “alzi il capo, ma si può perfino porgergli la mano affinché lo si alzi insieme, tornando a guardare verso l’Alto – da Cui tutti veniamo ed a Cui tutti facciamo ritorno.