Con una scelta di grande impatto emotivo Haaretz, il quotidiano della sinistra liberal israeliana ha pubblicato ieri, in prima pagina, le foto dei piccoli martiri di Gaza, gli ultimi, quelli della guerra di questo maggio.
Anche il New York Times ha fatto una cosa simile e questo acclara, se ce ne fosse bisogno l’asse tra una certa intellighenzia liberal USA e i suoi referenti in Israele.
Haaretz rappresenta da sempre, o quasi, l’ala progressista della società israeliana che, in particolare sostiene la necessità che Israele ritorni alle frontiere precedenti alla guerra del 1967 (detta dei Sei Giorni), corollario di questa scelta il ritiro dai territori occupati in Cisgiordania e Gerusalemme Est e lo smantellamento delle colonie che vi insistono.
Ora, di fronte alla scelta odierna, che ben oltre le cifre, sbatte in prima pagina i volti dei bambini trucidati a Gaza, è lecito interrogarsi sulle motivazioni che l’hanno determinata.
In primis dimostrare che nonostante tutto Israele è uno Stato democratico e pertanto esiste la libertà di espressione, anche in uno scenario di guerra. Questo indorerebbe la pillola a quella parte di società israeliana che respinge, in varie forme, ma con dubbia incisività la deriva militarista e sicuritaria sempre più spinta promossa dai governi a guida Netanyahu.
Va da se che questa democrazia non riguarda i palestinesi e solo in minima parte gli arabi portatori, loro malgrado, della cittadinanza israeliana.
E ricordiamo la regola principe della democrazia formale, ossia. “Dite quel che volete, siamo la maggioranza e facciamo quel ci pare”.
Poi c’è una la volontà di prospettare agli alleati internazionali la possibilità di interloquire con un settore israeliano meno compromesso, che spera di poter mantenere e migliorare le sue relazioni con l’Occidente e proporsi come alternativa “civile” al complesso militare-industriale che domina il Paese. Senza dimenticare, del resto, quei Paesi abitati dai musulmani che, negli ultimi anni, hanno instaurato con l’entità sionista rapporti vieppiù cordiali e che devono, in qualche nodo fare i conti con la sensibilità filo palestinese dei loro cittadini.
E, infine, una preoccupazione di marketing elettorale, questo genere di scelte attirano verso la “sinistra liberal” il consenso di molti radicali rafforzando l’identità politica della testata e il senso di appartenenza di una parte della società, elementi da capitalizzare per cercare di sconfiggere Netanyahu alla urne.
Mantenendo la visione del diritto alla giustizia generale per il popolo palestinese, ben venga quindi anche questa prima pagina.
La maggioranza della proprietà di Haaretz, il 75%, è nella mani della famiglia Schocken, il cui capostipite Salman, lasciò la Germania nel 1934 e lo acquistò nell’anno successivo dopo che la testata, nata nel 1918 grazie alla sponsoirizzazione dell’autorità mandataria, aveva vivacchiato fina ad allora senza assumere una precisa personalità.
Salman Schocke, attivo nella Brit Shalom, nota anche come Alleanza per la Pace Ebraico-Palestinese, un’associazione che promuoveva la coesistenza tra ebrei e arabi, ne fece la voce di un certo sionismo “socialista e progressista” e per garantirne la linea volle che suo figlio Gershom ne fosse il caporedattore (fino alla sua morte nel 1980)