Lo sapevate che Facebook ha eretto al suo interno un tribunale tutto suo? Si tratta di un consesso di autorevoli esperti presi dalla società civile, probiviri incaricati di dare un parere sul valore etico dei contenuti pubblicati. Non si tratta ovviamente di un giudizio dal valore legale; è un parere in base al quale la piattaforma toglie o restituisce la parola a un suo iscritto.
Negli ultimi mesi pandemia, omofobia e terra santa hanno trascinato nel dibattito pubblico un’entità che pareva ormai rimossa: la censura. Quando Internet scavalcò la televisione nella gerarchia mediatica si era fatta largo infatti un’orgiastica sensazione di libertà espressiva, tale da lasciare nell’oblio la possibile esistenza di un sistema di divieti e di controllo, lontano ricordo di vecchi mondi politici.
Nel frattempo però ci siamo resi conto che gli atti politici diminuiscono, le parole pubbliche aumentano ma la censura continua sempre a godere di buona salute. Non la censura ideologica che seguendo una scala di valori religiosi o politici decretava la sostanza e la forma del dibattito pubblico. La censura era allora un nemico visibile e dichiarato, diffuso nella società civile e incarnato dallo Stato.
La Legge contro cui lottare in maniera dialettica. Morte le antiche ideologie, sepolte le vecchie censure. Anche se sulle loro spoglie ha iniziato ad innestarsi il paradosso di una nuova censura tutta democratica, legata all’universo digitale.
È chiaro come la libertà d’espressione sia un sacrosanto diritto costituzionale. Quando dalla piazza si trasferisce allo schermo digitale rischia però di mutare in sterile abuso popolare. Si tratta di parole in libertà o di autentica libertà di parola? Legittimo dubbio se partiamo da una semplice constatazione: il web è il paradiso dei logorroici. Scrivono, giudicano, commentano, promuovono e sentenziano.
Chiunque abbia incontrato un logorroico, sa che buona parte di ciò che esprime è irrilevante e autoreferenziale. All’inizio l’interlocutore si illude di instaurare un dialogo, dopo poco si arrende alla forma del monologo. E se l’universo social fosse un’infinita sovrapposizione di monologhi? In caso affermativo, l’autoreferenzialità sarebbe la più efficace forma di autocensura.
Insomma le parole nascono, si riproducono, si diffondono in quantità abnorme,ma la quantità riesce a stare al passo della qualità? Spesso il dissenso viene abortito prima di poter essere censurato. È così che la democrazia totale rischia di trasformarsi nel suo esatto contrario: il totalitarismo ideale.
Basti fare un semplice esperimento. Hai un buon numero di seguaci sul web. Prendi un tema del momento, esprimi una tua opinione, pubblichi un’affermazione o un qualunque contenuto multimediale. Da una parte fioccano i: sei un grande, hai ragione. Forza! O meglio ancora un semplice like, una faccina sorridente e l’icona di un pollice in su. Dall’altra insulti o nel peggiore dei casi minacce.
Se i primi prevalgono e si moltiplicano il logorroico si tramuta in influencer, questa è la democratica censura, capace di trasformare il dibattito pubblico in un vuoto contenitore di suoni (il totalitarismo ideale per l’appunto).
Qualora il dissenso e la critica superassero con impertinenza lo scoglio della visibilità, ecco intervenire un secondo livello di censura. Le sacre piattaforme che vi hanno concesso la parola (Facebook, Youtube, Twitter…) potrebbero togliervela e bloccare il vostro account. Lo sapevate che Facebook ha eretto al suo interno un tribunale tutto suo? Si tratta di un consesso di autorevoli esperti presi dalla società civile, probiviri incaricati di dare un parere sul valore etico dei contenuti pubblicati. Non si tratta ovviamente di un giudizio dal valore legale; è un parere in base al quale la piattaforma toglie o restituisce la parola a un suo iscritto.
Se i probiviri vi dessero ragione e riusciste a conservare la vostra preziosa libertà digitale, allora potrebbe sopraggiungere una nuova ed antica insidia, la verità di Stato.
Un esempio? Pochi giorni fa il Presidente degli Stati Uniti ha ufficialmente dichiarato che è legittima se non probabile l’ipotesi che il virus pandemico possa esser uscito dai laboratori cinesi. Conseguenze: le grandi piattaforme digitali hanno riammesso tutti i contenuti prima censurati. Da fake news, figlia del complottismo, la stessa identica informazione è stata d’un colpo promossa a rango di notizia accettabile e divulgabile. E qui siamo tornati nei dintorni dell’antica censura che introduce una fondamentale distinzione tra opinione e notizia.
Come si fa a distinguere il falso dal vero, il soggettivo dall’oggettivo? Fonti, documenti, registrazioni dal vivo o testimonianze. Bisogna percorrere almeno una di queste vie per ergere un’informazione a rango di notizia. Subito però sorge un problema. Una volta tra il privato e il pubblico c’era la mediazione della pubblicazione, che certo poteva esser ideologicamente orientata, ma esigeva una distanza e una fatica che fungevano da linea di demarcazione.
Nell’acquario digitalizzato ogni affermazione o informazione diventa immediatamente pubblicazione. Ecco allora tornare la vecchia scrittura economica e politica a definire il limite tra falso e verità.
Ma non disperiamo. Anche se il Tribunale Digitale avrà davvero ridotto la libertà d’espressione, delle tre virtù rivoluzionarie, il web ci avrà comunque portato in dono l’uguaglianza e la fratellanza…