Il dramma personale che ha coinvolto il calciatore della Danimarca, Eriksen, e quello collettivo che ha colto il pubblico nello scoprire che in fondo anche loro, i calciatori, sono una specie animata e non un’immagine plastificata in movimento, ha eletto fin dal primo momento un eroe: il capitano della squadra Kjaer. Il suo comportamento fermo e coraggioso è stato probabilmente determinante nel salvargli la vita. Qualcuno si è chiesto: un gesto così normale in un momento disperato è davvero un atto di eroismo?
Voltiamo per un attimo lo sguardo alle abitudini negli anni maturate sui nostri campi di calcio. Pensiamo a quei capitani e alle loro facce superbe, sempre tese in proteste infantili e pretestuose; a quei tanti simulatori che franano a terra al minimo contatto gridando come se fossero vittime di un improvviso sgozzamento; a quelle attricette che danzano sulle punte per specchiarsi lungo tutto il campo e che, qualora dovesse presentarsi la morte, leste e sfacciate le chiederebbero un ultimo disperato selfie.
Immaginiamo tutte queste facce e applichiamo loro parole come dignità e nobiltà, attributi di ogni eroe. Subito si avverte un paradosso che stride. Allora rimbalziamo da quelle facce al volto austero e composto di Kjaer, provando a rispondere alla semplice domanda: si sarebbero comportati tutti in quel modo?
Forse sì, ma fino a un certo punto. In fondo di fronte a situazioni di disperata emergenza ognuno è capace di tirar fuori risorse ed energie animali, e per questo più umane. Giusto ma così si spiegano il coraggio e la prontezza nei soccorsi, a quanto pare risultati decisivi per mantenere Eriksen in vita. Ma la scena non finisce qui. Il capitano danese è praticamente fin dall’inizio l’unico a guardare in faccia un volto senza vita e lo fa senza batter ciglio. Attraverso lo specchiarsi con la morte nasce la nobiltà quella vera, quel che distingue il portamento umano, questa volta sì lontano da quello bestiale.
Una nobiltà che avremmo dovuto apprendere in quest’ultimo anno e mezzo; invece siamo più o meno rimasti come gli altri giocatori danesi: increduli, storditi e stupefatti. E lo scarto tra nobiltà e soldati semplici è un’evidenza, che non necessita di ulteriori commenti. Fosse finita qui la disciplina del dramma che ha spinto tutti i media a eroicizzare Kjaer, allora poteva restare il sospetto di un’esagerazione. Ma la scena va oltre.
È sempre lui ad accogliere ed abbracciare con composta fermezza la moglie di Eriksen, sconvolta e smarrita dal dolore. E infine la scena simbolicamente più forte della drammatica vicenda: la barella col corpo del calciatore esce fuori dal campo, scortata dai compagni di squadra che tendono dei teli per proteggerla dalla vista mediatica. Preservano il pudore e disegnano una scena da funerale laico, degna di una tragedia greca: almeno questa è la percezione del pubblico, anche se per fortuna il giocatore stava in realtà già riprendendo coscienza.
Sembra che anche la regia di questa scena sia da attribuire a Kjaer, il capitano danese, che dopo essersi preoccupato del corpo e degli affetti, non ha trascurato una cosa che molti invece avrebbero dimenticato: l’immagine. Il corpo di Eriksen tra la vita e la morte non poteva restare una nuda immagine persa nel circo mediatico tra il viavai delle telecamere e le foto degli smartphone. La dignità della lotta, della fatica intorno al trapasso è stata così preservata. E questo è un tatto davvero speciale nella società contemporanea.
Più che altro ci si potrebbe domandare: come mai un pudore così dignitoso e sensibile, in poche parole giusto si applica ad un corpo a metà animato dove la morte ha fatto apparizione se non altro come un’ombra mentre i corpi vivi e animati li lasciamo stuprare dalla mattina alla sera da immagini superflue e ridondanti? Certo la morte spariglia sempre l’ordine delle cose e nella sua parte di mistero dimora ancora come rispettata entità. E lo stupore della vita allora?
Lasciando da parte il moralismo implicito in una tale questione, torniamo all’interrogativo iniziale: il comportamento di Kjaer è stato davvero così eroico?
Compostezza, coraggio, fermezza, tatto e dignità: in unica parola nobiltà. Non c’è dubbio: Kjaer è stato un gigante e nobile eroe. E se un normale comportamento da uomo pare oggi assumere un valore così speciale e antico, il problema è nostro; significa forse che la normalità si è spostata così al di sotto della soglia della nobiltà, da lasciarci incantati davanti a un gesto simile.