L’aumento del sentimento anti-islamico, assieme alla crescita dell’estrema destra nelle Fiandre, mina la libertà di parola delle minoranze
Una recente caccia all’uomo alla ricerca di un ufficiale dell’esercito belga armato, che aveva minacciato un eminente consulente medico ed era sospettato di preparare un attacco contro una moschea, ha rivelato molto sull’ascesa della destra radicale in Belgio.
Il militare, impiegato più volte nelle operazioni in Afghanistan tra il 2011 e il 2017, è stato infine trovato morto il mese scorso, dopo settimane di fuga. In pochissimi giorni, un gruppo di Facebook che sosteneva l’uomo ha raccolto oltre 50.000 iscritti prima di essere cancellato dal social network. Uno degli slogan della pagina era “Colui che osa dire ad alta voce ciò che pensiamo”.
Il dibattito anti-islamico dell’estrema destra si sta scaldando in Belgio, soprattutto nella parte di lingua fiamminga del paese, dove il partito politico di estrema destra nella regione, Vlaams Belang, costituisce circa il 20% dei voti.
Nel 2017, Theo Francken, l’allora segretario di stato per l’Asilo e l’Immigrazione e membro del partito nazionalista, Nuova Alleanza Fiamminga, aveva pubblicato un sondaggio, sul suo account Twitter, sulle operazioni di salvataggio dei migranti nel mar Mediterraneo, prima di cancellarlo un paio d’ore dopo. La stragrande maggioranza di coloro che avevano votato (circa 900 su 1000) avevano scelto di escludere i naufraghi musulmani dai tentativi di salvataggio. Il sondaggio dimostrava che la sua dura posizione sull’immigrazione lo aveva reso popolare tra gli elettori, ma aveva anche provocato la spaccatura della coalizione di governo.
In effetti, qualche settimana prima un sondaggio indicava che il 74% dei belgi considerava l’Islam come una religione intollerante, il 60% lo vedeva come una minaccia, il 43% pensava che essere sia belga che musulmano fossero cose incompatibili e il 40% riteneva che i musulmani avessero comunque qualcosa a che fare con il terrorismo.
Restrizioni sui Musulmani
Il Belgio ha già vissuto oltre tre decenni di dibattiti pubblici sull’integrazione dell’Islam e dei Musulmani. Nonostante risulti difficile determinare l’impatto di questi dibattiti, quel che può essere notato, tuttavia, è che hanno infranto le barriere di quel che si può dire nell’arena pubblica sull’Islam e sui Musulmani. La maggior parte di questi commenti si concentra sulla visibilità pubblica dell’Islam e delle pratiche religiose ed hanno condotto a delle restrizioni sui Musulmani da parte del governo.
Il velo è sicuramente l’argomento più diffuso ed il primo ad essere emerso nel dibattito pubblico. Gli argomenti a tale riguardo variano dal percepirlo come un simbolo dell’islamismo e della sottomissione femminile o, al contrario, come un simbolo di forza e un’espressione pubblica di fede. Le polemiche intorno ad esso sorgono frequentemente, soprattutto nel contesto dell’istruzione superiore e dell’impiego nella pubblica amministrazione.
Nel 2012, la Corte Costituzionale ha confermato il divieto del velo integrale dopo due tornate di discussioni parlamentari nelle quali – ironia della sorte – i deputati si sono spinti fino a citare versetti coranici per dimostrare che non si trattava di un obbligo religioso.
Alla religione islamica, e agli stessi Musulmani, vengono solitamente affiancati valori culturali negativi
Nel 2015, un’azienda belga ha ottenuto la certificazione halal per il suo prodotto – una nota prelibatezza belga chiamata “sciroppo di Liegi”, a base di zucchero, succo di mela e pera – per poterlo esportare in Indonesia. In risposta, un politico locale ha restituito il suo barattolo di sciroppo all’azienda, sostenendo che si trattava di un “tradimento delle nostre tradizioni” e che non lo avrebbe mai più mangiato, anche se nessun ingrediente era stato cambiato nello sciroppo per essere considerato halal. La presidente del senato Christine Defraigne ha detto di aver compreso il disagio per questa certificazione poiché “rivela una sottomissione ad un’etichetta culturale che non è la nostra”.
Nel 2017, due regioni (le Fiandre e la Vallonia) di quel complicato paese che è il Belgio, hanno deciso di vietare la macellazione rituale che era stata consentita a determinate condizioni e che talvolta sollevava problemi di organizzazione, tracciabilità e sofferenza per gli animali.
Il motivo principale sventolato durante questo dibattito è stato quello del benessere degli animali, con affermazioni secondo le quali la macellazione rituale è molto più dolorosa di quella non rituale, nonostante la macellazione rituale rappresenti solo circa il 20% di tutte le macellazioni, e nonostante i numerosi video girati dagli animalisti che mostrano il disagio degli animali nei macelli tradizionali.
Contrari a un’identità belga
Quel che risulta chiaro da queste discussioni è come alla religione islamica e agli stessi Musulmani vengano regolarmente affiancati valori culturali negativi (oppressione, barbarie, violenza, illiberalità, ecc.) e l’opposizione ad una identità belga, naturalmente tollerante.
In questo contesto, nel corso di oltre due decenni, gli attentati terroristici islamisti sono arrivati a personificare la minaccia di un nuovo cavallo di Troia e la divisione tra “noi” (i belgi autoctoni non musulmani) e “loro” (quelli di origine straniera e islamica).
Un esempio, pochi giorni dopo gli attacchi terroristici del 22 marzo 2016, quando tre attentati suicidi uccisero 32 persone nell’aeroporto di Bruxelles e in una stazione della metropolitana della città, Jan Jambon, l’allora vice primo ministro (ora primo ministro) e membro della Nuova Alleanza Fiamminga, ha affermato che “una parte significativa dei musulmani ha festeggiato per le strade dopo gli attacchi”, senza aver alcuna prova delle sue accuse.
Un simile discorso politico di estrema destra non esiste ancora nella parte francofona del paese, ma anche qui il dibattito politico sull’Islam e sui Musulmani si sta deteriorando. Come in Francia e nei Paesi Bassi, gli accademici che sviluppano analisi pià articolate vengono minacciati e insultati sui social media e, cosa ancor più grave, sono accusati di fare il gioco degli islamisti.
La libertà di espressione è un principio fondamentale delle democrazie liberali e i dibattiti pubblici non hanno mai significato consenso. Tuttavia, l’attuale grado di polarizzazione creato attorno all’Islam e ai Musulmani – che ha portato non solo a una mancanza di civiltà, ma anche a minacce di violenze – mina l’idea stessa di dibattito pubblico.
Articolo di Corinne Torrekens*, l’originale è stato pubblicatdo su Open Democracy
*Corinne Torrekens è professoressa di Scienze Politiche all’Université Libre de Bruxelles