Dopo il “colpo di stato medico”, con il quale Ben Ali esautorò Burghiba, ecco il “colpo di stato costituzionale” con il quale il Presidente della Repubblica tunisina cerca di liquidare un parlamento che per lui non dovrebbe esistere.
A poche ore dal golpe il quotidiano francofono “La Presse de Tunisie” parlava di provvedimenti presi dal Presidente della Repubblica “conformément à la Constitution” e qualunque lettore un poco avveduto trasecolava.
Come è possibile che la Costituzione post-rivoluzionaria del 2014 permetta al Presidente della Repubblica di fare tutte le cose che Kais Saied sta facendo in nome della Costituzione: prendere i pieni poteri, licenziare il capo del governo, “congelare” il parlamento, togliere l’immunità parlamentare ai deputati e arrogarsi addirittura funzioni di pubblico ministero nei confronti di questi ultimi?
La nuova Costituzione – dopo l’esperienza di due regimi presidenziali autoritari – non è stata bene attenta a bilanciare i poteri del Presidente con quelli del Parlamento? E del resto quale Costituzione sensata – e i tunisini per la loro si sono avvalsi dei migliori consulenti europei – prevede una vera e propria “licenza di colpo di stato” come farebbe l’articolo 80 al quale Kais Saied si appella per giustificare i provvedimenti da lui presi la sera del 25 luglio?
Infatti non è così. “L’articolo 80 dice l’esatto contrario di quanto sta facendo Kais Saied” s’indigna Imen Ben Mohamed che quella Costituzione ha contribuito a scriverla quando venne eletta, giovanissima, come membro dell’Assemblea Costituente post-rivoluzione. Del resto basta leggerlo. Si trova su Internet. Dice che “in caso di pericolo imminente” che minaccia “le istituzioni, la sicurezza e l’indipendenza del paese” e intralcia il funzionamento dei pubblici poteri il Presidente della Repubblica può prendere le misure necessarie “previa consultazione con il capo del governo e il presidente dell’assemblea dei rappresentanti del popolo”.
Kais Saied non ha consultato né l’uno né l’altro: ha sequestrato per ventiquattr’ore il capo del governo Mechichi e ha schierato l’esercito davanti al parlamento impedendone l’accesso al suo presidente Ghannushi. Nel periodo in cui sono in vigore le misure eccezionali l’assemblea parlamentare “è considerata in stato di riunione permanente” – altroché “congelata” come vuole Kais Saied.
“Non possono essere presentate mozioni di censura contro il governo” – Kais Saied ne ha fatto a meno infatti, ha licenziato il capo del governo e annunciato la formazione di un nuovo governo nominato da lui solo. L’unica cosa che a Kais Saied non può essere imputata è la mancata informazione alla Corte Costituzionale per il buon motivo che essa non esiste. Il Presidente della Repubblica nei mesi passati ha avuto cura di impedire la nomina di un organo in grado di contrastare la sua libera interpretazione della costituzione.
Appellandosi all’articolo 80 Kais Saied “ha fatto il furbo. Si è fermato alla prima riga dell’articolo con la certezza che i Tunisini non sarebbero andati a rileggerselo” incalza Imen Ben Mihamed.
Forse anche – occorre aggiungere – confidando nel fatto che molti di quelli che l’articolo in questione lo conoscono o sono in grado di rileggerlo prontamente non fiateranno.
Troppo contenti di quello che sta succedendo: l’agognata “seconda rivoluzione” che difficilmente porrà riparo alla disastrata economia tunisina o alla drammatica emergenza covid ma toglierà di mezzo, si spera, una volta per tutte Ennahdha, il partito che si definisce “democratico musulmano”, bestia nera del ceto medio di stato, della sinistra marxista e di certa intellighenzia radical-chic, il cui consenso oggi è logorato anche presso i ceti popolari da dieci anni di difficile transizione e di crisi economica, a cui la pandemia ha dato la mazzata finale.
Contro il partito di ispirazione islamica ancora maggioritario, con un quarto circa dei seggi in parlamento, da dieci anni a questa parte il composito fronte dei nostalgici di Ben Ali e degli estremisti di sinistra, della borghesia laica franco-burghibista e dei socialisti arabo-nazionalisti conduce una lotta sulle piazze e sui social sostenuta dalla sua egemonia nello spazio dei media e della cultura.
E a intervalli regolari, da dieci anni a questa parte, la data del 25 luglio – Festa della Repubblica – si configura come il momento dello showdown tra chi difende le istituzioni nate dalla rivoluzione e chi vuole porre fine a quell’oggetto a troppi inviso che è una democrazia musulmana. Era già successo nel lontano 25 luglio del 2013, a ridosso del golpe egiziano, con l’omicidio del deputato Mohamed Brahmi che l’opposizione tenta di addossare ad Ennahdha.
Si ripete, il 25 luglio 2019, quando tutto il paese aspetta la tradizionale allocuzione del Presidente della Repubblica di cui viene invece annunciato il decesso. Il presidente porta con sé nella tomba la riforma elettorale che con uno strappo costituzionale non ha né firmato né rimandato al parlamento, in aperta violazione dell’articolo 81 della Costituzione, e la sua morte lo esonera dal fornire le attese spiegazioni del suo gesto.
Da ultimo, per questo 25 luglio erano state annunciate da settimane su facebook manifestazioni in tutto il paese, contro il governo, i partiti e soprattutto Ennahdha. Lo scontento era già salito alle stelle in occasione dell’Aid Al Adha, quando, contrariamente ad una prassi consolidata, non erano stai versati in anticipo i salari ai dipendenti pubblici affinché potessero procedere all’acquisto dei montoni per il sacrificio.
La rabbia sui social si era scatenata anche a seguito della circolazione di un documento di dubbia autenticità in merito ai risarcimenti promessi alle vittime del regime di Ben Ali e mai erogati. Rabbia non perché le vittime aspettano ancora giustizia ma perché la reclamano (nessuno però se l’è presa con i sindacati che reclamano aumenti salariali).
Negli appelli a scendere in piazza che circolavano sui social si leggevano anche strane richieste di cambiamento della Costituzione e di intervento dell’esercito. Strane nella misura in cui il popolo tunisino tanto poco mostra di conoscere la Costituzione da permettere al suo Presidente di appellarsi ad un articolo facendo l’esatto contrario di ciò che esso stabilisce.
Strane nella misura in cui l’esercito in tutta la storia della Tunisia era sempre rimasto neutrale. E forse merita ricordare che proprio sui social Saied ha costruito con successo la sua campagna elettorale per le presidenziali. Molti si aspettavano che questo 25 luglio sarebbe stato come le altre volte. Sull’orlo della crisi istituzionale, dello scontro, forse anche della guerra civile, tutti si sarebbero fermati e avrebbero fatto un passo indietro perché questo è nel dna del popolo tunisino. Ma mancava, allora l’uomo della provvidenza, capace di promettere al popolo la fine delle sue disgrazie se solo si fosse affidato a lui anziché ad un pezzo di carta chiamato costituzione.
E’ inquietante, in questo contesto, il silenzio delle istituzioni europee.
La Tunisia democratica emersa dalla rivoluzione ha scritto la sua nuova costituzione guardando all’Europa, guardando alle democrazie occidentali, cercando di travasare da quelle secolari esperienze ciò che più si adattava ai propri bisogni. In quella costituzione ha cercato di mettere il meglio della democrazia classica ma anche di quella contemporanea: i diritti delle donne, le istituzioni paritarie, la democrazia partecipativa.
Oggi che quella preziosa carta viene tradita e messa in pericola “non bisogna avere paura delle parole” dice il giornalista Samy Ghorbal uno dei pochi che ha il coraggio o l’onestà di parlare di colpo di stato pur essendo un feroce critico del governo e di Ennahdha. La comunità internazionale occidentale – quella che ha il copyright sulla democrazia – tace prudente o invita untuosamente a evitare la violenza e a “rispettare la costituzione” (già violata) e la libertà di stampa (già repressa – vedi il caso di Al Jazeera).
L’Unione europea che insegna a scrivere le costituzioni non sembra capace di riconoscere un colpo di stato. Sicché oggi la vicenda tunisina rappresenta anche “un esame per la comunità internazionale” come dice Imen Ben Mohamed che spera “con tutto il cuore” che essa lo superi. Un esame che già in passato ha fallito, quando passarono mesi prima che il colpo di stato in Egitto del 2013 venne chiamato con il suo nome.
Con le conseguenze che sappiamo: basta pensare a Regeni, a Zaki e ai tantissimi altri i cui nomi non arrivano sui media. Dobbiamo solo sperare che questa volta l’esame lo superi anche e soprattutto nel proprio interesse. E che dimostri che il proprio sostegno alla democrazia e ai diritti umani non è pura retorica o ideologia.