Tra i tuttologi del web che impazzano sulla scia della “reconquista talebana” dell’Afghanistan, si è soliti assimilare “gli Studenti” alla galassia “salafita”, pronti, “dai tagliagole che sono”, a riversare sull’Occidente – questo universo buono, puro e innocentino – gli eccidi dei loro fratelli del Daesh. Ma è veramente così?
Se al primo Profeta in termini di apparizione nel mondo, Adamo, (psl) – essendo il nostro maestro e capo Muhammad (pbsl), a lui precedente nel Decreto Divino e come luce –, Iddio ha insegnato tutti i nomi, la perversione delle realtà nominate discende dalla perversione dei nomi.
Negli ultimi decenni, dai media-spazzatura e dagli ambienti accademici il cui valore effettivo gli è di poco superiore, siamo stati investiti da una cascata di neologismi relativi al mondo Islamico, uno più infondato e disdicevole dell’altro.
Come se non bastasse l’uso di “islamici” (un aggettivo) per definire i musulmani (un sostantivo), o i sempreverdi “integralista” (integrare Religione e Stato?) e “fondamentalista” (un musulmano che si attiene alle fondamenta della religione? esperto della scienza degli usūl al-fiqh-principi della giurisprudenza islamica? ), siamo stati tempestati poi da “islamista”, “radicalizzato” e “jihadista/jihadismo”, che non solo denigra quello che è quasi il sesto pilastro dell’Islam, in alcuni ahādīth descritto come l’azione più virtuosa di un credente, ma che, essenzialmente, identifica qualunque musulmano, attualmente o potenzialmente, è restio a integrarsi totalmente nel vuoto spirituale dell’occidente laico.
Tra i termini più inflazionati ed abusati spiccano “salafita”, Isis e “tagliagole”.
I tuttologi del web, la cui sfera di competenza era prima limitata ai derby milanesi e alle ugole raspose dei Sanremo attuali, commentate fra una brioche al lampone e un caffè macchiato, e che ora si dichiarano esperti secolari di cose afghane, avranno visto giusto almeno questa volta?
Non bastassero gli Internettologi laici digiuni di nozioni islamiche, si sono messi anche tanti musulmani distratti e frettolosi a fare confusione, riducendo Talebani a sinonimo di “salafiti” e “wahhabiti”.
Va chiarito dunque questo accanito fraintendimento.
Tālibān è una parola Pashto (una delle due lingue principali dell’Afghanistan, insieme al dari) con lo stesso significato dell’arabo “tullāb“, coloro che cercano (“seekers” in inglese) e coloro che studiano, “gli studenti” – ma non gli “studenti di Dio” come li hanno definiti i dilettanti di Canale 5.
Nascono infatti come studenti (si dice un nucleo di 50) in istituti islamici tradizionali (singolare: Dār al-‘Ulūm) di impronta Deobandi in Pakistan, nella zona confinante con l’Afghanistan meridionale, ed erano per lo più Pashtun.
I Talebani non si sono mai discostati da tale origine.
Sono dunque Deobandi duri e puri.
Come tali:
– Sono Hanafiti, essendo la scuola hanafita quella da sempre dominante nell’area
– Sono anti-“Salafiti”.
– Contrari all’approccio “lā madhhabī” (superamento delle scuole giuridiche classiche), che invece modella la visione “salafita”.
– Maturiditi in ‘aqīdah (credo), quindi privi di credenze antropomorfiche e seguaci dell’Imām Abū Mansūr al-Māturīdī, dopo l’Imām Abu’-Hasan al-Ash`arī il più importante sistematizzatore della dottrina degli Ahl as-Sunnah.
– Senza ostilità verso il Sufismo islamico. Questo in generale, in linea di principio, anche se in concreto hanno agito contro gruppi e pratiche Sufi da loro considerate eretiche.
Questa è la loro caratterizzazione, la loro matrice, che li delinea in modo continuativo.
Sono una forma guerresca del Deobandismo, ne formano una propaggine militarizzata, con tutto, naturalmente, che quello Deobandi non è uno schieramento monolitico, ma bensì variegato, con diverse manifestazioni e cambiamenti generazionali, come sta avvenendo in paesi quali il Sudafrica o la Gran Bretagna dove la loro influenza è estesa quando non egemonica (nella regione del Gauteng, dove sono situate Johannesburg e Pretoria, almeno il 90% delle moschee e degli istituti islamici sono controllati da loro).
E difatti gli stessi Tālibān non sono stati esenti da aspre critiche che il centro nevralgico del Deobandismo ha rivolto loro per azioni che hanno provocato inutile spargimento di sangue.
Il nome del movimento discende dall’Istituto di Studi Islamici Dār al-‘Ulūm Deoband (situato nella regione indiana dell’Uttar Pradesh). Anche in Italia diversi musulmani indigeni aderiscono alla loro scuola; in aggiunta, è tale scuola a dominare l’orientamento delle moschee gestite dai bengalesi nel nostro paese.
I Tālibān formano perciò una ‘asabiyyah (gruppo coeso con comunione di visione e intenti)– termine mutuato da Ibn Khaldūn, padre della sociologia della storia – coesa, compatta ed organica, fondata sulla comunanza tribale, linguistica e culturale, e sulla uniformità di visione islamica e approccio alla religione, su una completa omogeneità antropologica, in altre parole, sulla quale si innesta una evidente ed invidiabile volontà di potenza.
Ci sono poi alleanze storiche di tipo strategico, che sono un’altra cosa. In quel senso, si sono trovati a combattere fianco a fianco con i mujāhidīn arabi o ceceni contro l’impero sovietico, il che non è certo sufficiente ad etichettarli come “salafiti”; in più, il loro senso di onore e tribale non gli ha permesso di consegnare senza prove Osama bin Laden , che aveva combattuto insieme a loro contro l’invasore comunista.
A complicare le cose abbiamo la descrizione dei Deobandi come “wahhabiti” da parte dei Barelwi (il secolare conflitto fra Barelwi, che hanno una più accentuata inclinazione Sufi e venerazione degli awliyā’, gli amici di Allah (spesso genericamente chiamati santi) e Deobandi risale ai tempi in cui l’India pre-partizione era sotto gli inglesi).
Le ragioni per tale definizione sono il rigido puritanesimo dei Deobandi, un certo ridimensionamento della figura del Profeta (pbsl), l’accusa ai Barelwi di essere “adoratori di tombe”, il bando dei kawwāli spirituali e ogni forma di espressione musicale, ecc.
Nonostante ciò, sia i Deobandi che i Barelwi sono Hanafiti e Maturiditi che accettano il Sufismo (contrariamente a “salafiti” e “wahhabiti”), e che studiano gli stessi testi di fiqh( giurisprudenza islamica) e anche di ‘aqīdah (il credo), e ultimamente in Sudafrica cooperano fra di loro molto più di prima.
Va ricordato che il movimento dei Tabligh Jamaat – emanazione del Deobandismo – nasce nell’India ancora sotto occupazione britannica, quando andavano ad insegnare le nozioni basilari dell’Islam nei villaggi dove dominavano le superstizioni e strati su strati di ignoranza e rifugio nel soprannaturale e nelle credenze distorte. Questa genesi spiega il loro impulso a disinfettare l’Islam con la candeggina.
Mentre i Tabligh Jamaat fanno “tashkīl” (reclutamento) di gruppi di musulmani da spedire in case di correligionari per invitarli in moschea, i Talebani lo fanno di gruppi di combattenti per spedizioni armate contro gli usurpatori russi prima e occidentali poi (ma in passato anche, purtroppo, contro altri musulmani).
Il loro approccio verso la segregazione dei sessi è del tutto simile a quello che vediamo fra i Deobandi in Sudafrica – dove pure non permettono alle loro donne di andare in moschea, nonostante le feroci critiche lanciate loro su questo punto dai modernisti, mentre i Barelwi sono assai più accomodanti verso la presenza di donne nelle case di Allah – e in altri paesi dove sono emigrati.
Rispecchia non il fiqh hanafita (che in Turchia, per esempio, la pratica è radicalmente diversa) ma la cultura del subcontinente indiano con cui lo filtrano e interpretano, figurarsi poi in una regione, come quella afghana, dove la conformazione geografica del territorio ne accresce l’impulso alla insularità, alla esclusività e alla inscalfibile perpetuità di granitiche usanze locali.
Certo, contrariamente ai suoi pomposi proclami, il movimento Deobandi è un movimento moderno e riformista – non classico e originale –, come lo sono il “salafismo”, il wahhabismo (che formulano la stessa fuorviante rivendicazione di autenticità), la Fratellanza Musulmana e lo stesso Barelwismo, ma da qui a gettare tutto in un unico calderone senza distinguere gli ingredienti ce ne passa.
I Tālibān, poi, non hanno niente ma proprio niente a che vedere con l’Isis, un mondo lontanissimo da loro e a loro estraneo, ideologicamente, dottrinalmente, programmaticamente, e non sono tagliagole ma fieri guerrieri afghani, con pregi e difetti, azioni lodevoli ed eccessi abominevoli.
Confonderli con i “salafiti” o con Daesh è perciò un errore miopico da matita rossa.