Il futuro del rapporto tra Afghanistan-Occidente: l’analisi degli esperti

Dopo un bagno di sangue durato 20 anni gli USA si ritirano dall’Afghanistan assieme ai loro alleati. L’invasione, giustificata con gravi menzogne e mistificazioni all’indomani dell’11 Settembre e che ha causato centinaia di migliaia di vittime civili, è stata supportata da tutto l’Occidente con la sua macchina di propaganda mediatica ben oleata, salvo qualche eccezione.

Il bilancio è ovviamente disastroso per tutto: 1.000 miliardi di dollari spesi solo dagli USA, innumerevoli vittime civili, una nazione a pezzi, una regione resa del tutto instabile se consideriamo anche il brutale intervento coloniale occidentale in Iraq, ma anche in altri Stati del Medio Oriente.

Ora, con la scusa del terrorismo ormai troppo abusata e con gli USA in ritiro dal Paese, alla propaganda europea (inclusa quella italiana) non resta che riesumare l’antico vizio colonialista rappresentando come “selvaggi” i Talebani, rei di non essersi sottomessi ai diktat secolar-liberali del colonizzatore.

In mancanza di argomenti con un minimo quoziente morale, ecco partire all’unisono rivendicazioni al “diritto inalienabile” delle donne afghane di uscire semi-nude, mentre la civilissima Europa con totale ipocrisia nega il diritto delle donne ad indossare il velo islamico nei luoghi di lavoro. Ovviamente nessun mezzo d’informazione mette in rilievo una contraddizione di tale portata.

Intanto gli pseudo-esperti di legge islamica e geopolitica, i difensori dei diritti delle donne un po’ distratti negli ultimi  anni, si fanno oggi neo-araldi dei diritti delle donne afghane, ma erano assenti fino a ieri quando le stesse donne subivano assieme alle loro famiglie i bombardamenti democratizzanti dell’Occidente in maniera questa sì inclusiva perché non risparmiavano nessuno donne né bambini, funerali e matrimoni.

Il richiamo strumentale ed ipocrita ai “diritti umani” va di pari passo con mistificazioni e false notizie (pardon “fake news”) atte a suscitare lo sdegno della pubblica opinione perennemente disinformata ed oggi tutta impegnata nel seguire i bollettini della pandemia. Ma questo serve anche a giustificare il supporto ad Ahmad Massoud (figlio del famoso comandante Ahmad Massoud Shah) pedina da utilizzare per mantenere l’Afghanistan in uno stato di infinita instabilità e “guerra civile”.

Per l’ex ambasciatore USA in Afghanistan, James Cunningham, il ritiro frettoloso ordinato da Biden ha lasciato l’amministrazione americana impreparata a gestire il problema del ritiro, incluso il supporto dovuto ai collaborazionisti. Per l’ambasciatore, tuttavia, dopo gli accordi Doha la decisione del ritiro era già stata presa e la scelta era più se lasciare un piccolo contingente militare o meno per collaborare con gli afgani.

Ora la porta è aperta per Russia e Cina per fare la loro mossa. I Talebani si sono rivelati dei formidabili combattenti pronti a morire per ciò in cui credono e quindi a combattere l’invasore di turno; ed è proprio questo ad avergli garantito un largo consenso popolare. Per Cunningham i rapporti futuri coi Talebani dovranno essere più di carattere diplomatico, in una situazione umiliante per gli americani che al popolo afgano devono un vero e proprio “debito morale” secondo le parole  dell’ex ambasciatore.

Il professore ed autore Shuja Nawaz afferma che gli USA hanno sì vinto la guerra contro al-Qaeda in Afghanistan nel 2001, ma la decisione di rimanere per 20 anni si è rivelata un grosso errore. Il ritiro sarebbe potuto avvenire dopo la presunta uccisione di Bin Laden; poi ancora gli USA si sarebbero potuti ritirare nel 2014, come aveva falsamente promesso Obama.

Il nocciolo della questione per Nawaz è che una guerra civile non si può vincere con un intervento militare. In questo Nawaz dà ragione a Biden che ha ammesso che sono gli afgani a dover decidere di cambiare le cose e come cambiarle e non una forza esterna. Ma il danno è ormai fatto e per Nawaz una soluzione potrebbe essere quello di riaprire l’ambasciata a Kabul per facilitare l’uscita dal paese dagli americani e dei collaborazionisti ed evitare il ripetersi di vergognose scene come quelle all’aeroporto di Kabul.

Anche in questa vicenda la propaganda europea si è distinta in ipocrisia incolpando, seppur indirettamente, i Talebani anziché riconoscere la codardia e immoralità delle forze statunitensi che avrebbero dovuto garantire l’espatrio dei collaborazionisti. E ancora silenzio assoluto da parte dei media nostrani.

Il ritiro dunque non doveva rappresentare una sorpresa; la sorpresa è avvenuta più in merito al metodo. In breve, afferma l’analista Safiya Ghori-Ahmad, il piano del ritiro non era chiaro, come ambiguo è stato il messaggio dato al popolo afgano, le modalità logistiche della ritirata, le tempistiche e via dicendo. La domanda che si pone  Safiya è se gli USA siano usciti indeboliti non tanto in merito all’esito della guerra – le perdite umane e materiale del popolo afgano essendo terribilmente più elevate –  ma in merito alla rovinosa uscita di scena.

L’analista Shamila Chaudary  inoltre valida il discorso dei Talebani che hanno affermato che il ritiro concordato con gli accordi di Doha non si è realizzato come pianificato dagli americani, costituendo una violazione di quei negoziati. Oltre al danno la beffa dunque perché oltre al ritiro militare si aggiunge anche una sconfitta politica che certamente non gioca a favore dei progetti coloniali statunitensi e dei loro alleati, Europa inclusa. Per Chaudary l’unica via di “redenzione” geopolitica è quella di un progetto a lungo termine tramite una strategia di soft politics e lontano da nuove avventure militari.

C’è un errore però che bisogna evitare ed esso è quello di incolpare solo Biden per le azioni di ben tre presidenti prima di lui (Bush, Obama, e Trump). Così la pensa anche Irfan Nooruddin, professore presso la Scuola di servizi esteri nella Georgetown University e direttore dell’Atlantic Council’s South Asia Center.

Per Nooruddin Biden è invece da applaudire per la trasparenza sulle motivazioni del ritiro rispetto ai suoi predecessori, i quali avrebbero potuto stabilire un ritiro con maggior tempismo e minor danno. Per Nooruddin però Biden ha anche perso delle opportunità nel discorso del ritiro: avrebbe dovuto parlare di più di diritti, di Cina e Russia. Il motivo è che la prossima grande missione per gli USA non è più quella del Medio Oriente (non direttamente almeno) ma quella della Cina.

Che questa battaglia possa aver luogo con una guerra per procura (forse abusando ancora del Medio Oriente) è probabile ma in ogni caso troppo poco è stato spiegato in merito alle future relazioni USA-Cina all’indomani del disastro in Afghanistan. Alla fine, afferma Nooruddin citando Biden, le vere vittime sono state i civili afgani, gli uomini, le donne ed i bambini devastati da decenni di guerra, false promesse ed abusi sanguinosi ed umilianti.

Anche la questione ideologica è di forte interesse secondo Andrew Peek, l’ex direttore per gli affari Russo-europei presso il National Security Council e che si è occupato di Iran ed Iraq presso Il Dipartimento di Stato USA. “Abbiamo costruito un Afghanistan a nostra immagine, non secondo la loro”  afferma Peek ricordando l’errore iniziale di voler costruire un governo centralizzato e multietnico che controllasse tutto l’Afghanistan, cosa mai vista prima nella storia dell’Afghanistan.

Tutto quello che rimane dei 20 anni di brutale colonialismo occidentale è quella scena di confusione e morte all’aeroporto causate non dai Talebani ma dagli invasori e soprattutto dalla malagestione americana.

L’aspetto culturale è importante anche per Kirsten Fontenrose, direttore della Scowcroft Middle East Security Initiative ed ex staff governativo USA in questioni di sicurezza. Per Fontenrose i Talebani stanno adottando una strategia politica più moderata rispetto al passato, dando dimostrazione di voler garantire un passaggio di potere pacifico, di essere aperti a negoziati e con l’intenzione di evitare sanzioni ONU.

Tutto ciò per avere il tempo materiale per creare un governo stabile e con una presa culturale consolidante sul Paese ed è per questo che Fontenrose prevede trattative interne in merito a divisioni del potere, tasse, risorse e ruoli governativi ed in particolare quelli con più rilevanza culturale come giustizia ed educazione.

Che dire della cosiddetta resistenza anti-talebana in chiave governativa? La corruzione governativa degli ultimi anni ha causato non pochi problemi in termini di legittimità del potere. Il governo afgano si è reso molto inviso alla popolazione, come ricorda l’analista Kamal Alam.

Nella prospettiva di un Afghanistan amministrato dai Talebani le domande sono principalmente due per il vice presidente dello Scowcroft Center: il rischio di infiltrazioni terroristiche in un Afghanistan ancora molto fragile ed il ruolo dei Talebani nella competizione USA-Cina.

La questione terrorismo può essere risolta senza ulteriori scuse per azioni colonialiste e brutali dall’esterno del Paese irrigidendo ed elaborando i controlli di frontiera per l’immigrazione dell’Aghanistan secondo la proposta di Thomas Warrick, ex impiegato presso il Dipartimento di Sicurezza interna USA. Warrick in questo caso parla di una vera e propria “barriera” tale comunque da garantire potenziali contatti commerciali per non lasciare un vantaggio pericoloso alla Cina.

La questione del terrorismo invece è affrontata da Christopher Preble, co-direttore del New American Engagement Initiative presso lo Scowcroft Center for Strategy and Security. Per Preble era chiaro da tempo che gli svantaggi della “guerra al terrore” superavano i vantaggi.

Non si parla tanto della guerra contro Al-Qaeda che è da considerarsi un successo ma della cieca brutalità utilizzata con la scusa del rischio terrorismo che ha portato morte, devastazione e instabilità in Medio Oriente per mano dell’Occidente colonizzatore. L’origine del disastro occidentale risiede nella falsa giustificazione per l’invasione dell’Iraq prima (le fantomatiche armi di distruzione di massa) e dell’Afghanistan dopo (la presenza di Bin Laden nel paese di cui i Talebani chiesero prove al governo USA e da quest’ultimo mai fornite).

Per Preble inoltre la scusa che un Afghanistan instabile è il terreno perfetto per i terroristi non tiene più ormai, in quanto con l’avanzamento delle tecnologie disponibili uno spazio fisico non è più necessario ed anzi è una scelta debole rispetto ad uno spazio magari cibernetico difficilmente tracciabile ed estremamente pervasivo.

Questa narrazione colonialista deve finire, per Preble, per consentire di concentrarsi su questioni più rilevanti come la Cina, certamente rea di gravi violazioni dei diritti umani (basti pensare alla questione degli Uiguri), ed il Covid-19.

L’altra questione che dovrebbe rappresentare una priorità è quella relativa alle risorse (in particolare energetiche e minerarie) che deve essere risolta superando logiche colonialiste per cui, col pretesto dei diritti umani, si invadono paesi per depredarne le risorse.

Secondo tale analista ora è tempo di garantire corridoi umanitari, evitare una catastrofe umanitaria e comprendere i Talebani, anche guidandoli magari ma sicuramente interagendo diplomaticamente e senza discorsi da sceriffo colonizzatore come si continuano a sentire dalla propaganda mediatica europea, tramite una descrizione della situazione in Afghanistan basata su mistificazioni, fatti raccontati a metà, mancanza di analisi accurate, video ed immagini dell’ISIS spacciate per immagini dei Talebani, ed un generale atteggiamento di pretesa superiorità culturale.

I Talebani nel passato hanno certamente commesso errori ed hanno mostrato una interpretazione errata della legislazione islamica, a causa di pratiche tribali e ataviche tradizioni che ora sembra si vogliano superare. Ma la vera fortuna dei Talebani è stata proprio il ruolo di salvatori contro l’invasore occidentale e la sua brutale colonizzazione materiale e ideologica.

La vittoria militare e politica oggi è dei Talebani e l’unica via di uscita per le forze coloniali occidentali non può che essere l’azione diplomatica e il focus sull’influenza cinese attuando una coerente azione di soft politics. L’idea che una ideologia come quella delle democrazie liberal secolari si possa diffondere a suon di bombe e civili fatti a pezzi si è rivelata un colossale fallimento.

La Storia avrà tutte le prove per affermare che l’ideologia liberal-secolare, trovatasi priva di argomentazioni intellettuali, non ha potuto che cercare di imporsi con la forza ed il sangue