Sono passati 20 anni dal crollo delle Twin Towers, il primo attacco che gli USA hanno subito sul loro territorio.
Da quel giorno sono successe molte tragedie di cui il martirio del popolo afgano é certamente la peggiore, ma le ricadute di quell’avvenimento sono state e sono ancora ampie e variegate. Nessun esponente dell’intelleghenzia Islàmica occidentale si é speso quanto te, in questi vent’anni, in tutto il mondo per rappresentare una visione dell’Islam rigorosa e al contempo dialogante, senza nessuna tolleranza del jihadismo e neppure dell’isteria securitaria. Vuoi parlarci della tua esperienza in quei primi mesi ? Specie le diverse reazioni dei dirigenti della comunità in Europa e negli States?
Innanzitutto c’è stata la costernazione e la netta condanna. C’erano tuttavia tre modi diversi, il primo era negare il fatto in se sostenendo che si trattava di un complotto, la seconda sostenere che i musulmani non potevano aver fatto una cosa del genere, la terza infine era la condanna senza nessuna sfumatura critica, come se bisognasse rispondere in questo modo al diktat di Bush: siete con me o contro di me?
Il mio modo è stato quello di prendere posizione in base a quello che si sa e interrogarsi su quello che non si sa ed evitare di cadere nella trappola bianco/nero o pro/contro. Sappiamo che nella tradizione musulmana ci sono sempre state delle letture che potevano essere estremiste e che bisognava dirlo e condannare quello che era successo senza tuttavia negare che, in relazione al modo in cui si era prodotto, c’erano domande da porsi: chi sono? come lo hanno fatto? quali sono le prove che hanno permesso di identificarli?
C’erano insomma cose inquietanti su cui bisognava interrogarsi. Anche rispondere a Bush accettando il suo modo di porre la questione non era corretta: si poteva stigmatizzare l’uccisione di innocenti e essere al contempo molto critici verso la sua politica. Io ho scelto questo modo e pochi giorni dopo ero a New York dove ho partecipato ad un dibattito organizzato da Times. La comunità è invece spesso caduta nella trappola della dicotomia oppure nell’ipotesi complottista dimostrando una mancanza di analisi politica su cosa evidenziava quel accadimento.
Possiamo dire che nonostante le reazioni alla rivoluzione iraniana e agli attentati attribuiti ad Al Qaida é dal 9/11 che l’Islamofobia é dilagata in Occidente?
No, non possiamo dire che l’islamofobia nasce in quel momento. Essa risale al medioevo, alle crociate, alla colonizzazione e, negli Stati Uniti quando è stata accomunata alla questione degli afroamericani.
Quello che è stato aggiunto è una specie di globalizzazione del discorso israeliano verso gli oppositori. Cioè affermare che oltre ad essere una religione problematica, nell’Islàm c’è una tendenza alla violenza e al terrorismo.
Sharon disse immediatamente “ora sapete cos’è il terrorismo”. Si associarono all’Islàm il terrorismo, la violenza e la radicalizzazione.
All’alterità della religione islamica si aggiunse la questione della violenza e il cosidetto “odio per l’occidente” che sarebbe il carattere non integrabile e non assimilabile della presenza islamica. Giocando su questi elementi hanno messo in atto un apparato sicuritario e di sorveglianza del tutto liberticida che avrebbe riguardato tutti i cittadini. Oggi a vent’anni di distanza viviamo questo sistema in relazione alla pandemia.
Da allora le organizzazioni dei musulmani sono state chiamate in continuazione a condannare e dissociarsi da ogni singolo atto di violenza a cui si ascriveva una qualche valenza “islàmica”. Questa continua pressione ha modificato la loro percezione e il rapporto con il mondo non islamico, le sua società civile, le istituzioni, i media e, in generale con la cultura dominante ?
Si è così, i musulmani sono stati messi costantamente nella posizione di doversi difendere.
Condannare, giustificarsi, prendere le distanze e questo ha generato un triplo femomeno: invece esporre la propria identità toccava dire prima di tutto che NON si era terroristi o violenti, quindi una definizione di se che partiva da una negazione e questo atteggiamento sviluppa uno schema psicologico non solo difensivo ma anche reattivo, di giustificazione e perfino di paura.
Iniziare cioè da quello che non si è per arrivare a dire quello che invece si sente di essere si basa sul timore, sull’insicurezza, sul malessere, sull’accettazione del fatto di essere una presenza che disturba. E’ difficile in queste condizioni ribadire una presenza sociale che sia serena e sviluppata. Da vent’anni i musulmani d’Occidente vivono in questa negativa definizione di loro stessi, percependo la società in cui vivono come il luogo in cui bisogna continuare a giustificare la loro presenza. Una presenza che sarebbe tutta da costruire quando invece essa risale già a diverse generazioni.
Questo stato di cose ha fatto sì che molte organizzazioni e molti leaders, volendo proteggere le comunità hanno sviluppato un discorso che di fatto negava il principio di cittadinanza. Insomma per diventarlo, o continuare ad esserlo si doveva sempre dire quello quello che NON si era rassicurando la gente tra le quali si viveva, di NON essere un problema, NON essere una minaccia per la loro sicurezza. Questi responsabili dalla comunità hanno assunto una psicologia difensiva che è ricaduta inevitabilmente in termini di malessere e stati d’ansia in moltissimi musulmani.
Oggi con il ritiro delle truppe Nato dall’Afghanistan sembra essersi conclusa la fase marcatamente militare del voluto “Clash of civilizations”. Anche il progetto del New American Century é sfumato o si tratta solo di una seria battuta d’arresto e, in tal coso cosa prevedi nella strategia USA nei confronti del mondo islamico?
Non credo che questo sia vero, penso piuttosto che si tratti di una strategia a lungo termine. Il ritiro da la sensazione della sconfitta ma credo si tratti invece di un riposizionamento strategico in un progetto a lungo termine. Bisogna ricordare che è proprio dall’Afghanistan che è stato ricavato lo stereotipo del “terrorista musulmano”, quella maniera di vestirsi, quella barba…e ora si cerca di riaffermarlo con una presenza politica in qualche modo normalizzata e istituzionalizzata. Una presenza che si amplifica e vuole significare al mondo che, un’altra volta, l’estremismo islamico si riconnette con il mondo intero e si amplifica.
Si tratta di una nuova fase della paura istituzionalizzata e pertanto sono convinto che quello che potranno sentire e soffrire i musulmani d’Occidente sarà, nel futuro, estremamente pericoloso. Quella che ci viene presentata come una disfatta americana, sarà un nuovo capitolo del permanente “problema islamico”, dell’Islàm conservatore, non diverso da quello saudita e dei Paesi del Golfo che, da parte loro, sono comunque maggiormente gestibili e offrono vantaggi immediati.
Credo che sia necessario diffidare di questo “passo indietro”, di questo momento storico in cui gli USA fanno finta di accettare la loro disfatta volendo piuttosto usare l’attuale realtà afghana per mantenere la paura di questo “islàm retrogrado, radicale” e strumentalizzarla per mantenere la paura. Va da sé che non metto in dubbio la sincerità di moltissimi afghani e che i popoli hanno diritto alla loro autonomia ma è opportuno mantenere un’attitudine vigile e critica. Quando vediamo il figlio di Ahmad Shah Massoud che fa appello all’Occidente affinchè lo sostenga contro i Talibani e mente raccontando di un incontro tra suo padre e Bernard Henry Levi possiamo temere il peggio.
Alcuni esperti di geopolitica sostiene che il blocco musulmano che va dal Mediterraneo allo Xinjiang potrà avere il ruolo di prima linea in un possibile scontro tra le potenze atlantiche e la Cina. Credi che sia uno scenario possibile e cosa dovrebbero fare i musulmani per evitare di venire schiacciati?
Ho letto qualcosa in merito a queste analisi teoriche, ma non mi sembra del tutto convincente. Si tratta di geostrategia che è ancora legata ad una rappresentazione del mondo che è quella del passato. Oggi il confronto con la Cina non è su questo terreno, su questa linea di frattura.
Tre cose su cui ragionare: è certo che i musulmani siano importanti rispetto alla Russia, alla Cina ma non sono semplicemente una zona di scontro, si tratta piuttosto di spazi di potere e contropotere, di bilanciamento, di dove si trovano i giacimenti, il petrolio, gli oleodotti, tutto quello che fondamentale nella relazione con il Pakistan, con l’Iran.
I musulmani che insistono in quei territori non sono sulla linea del fronte ma sono essenziali nelle sfide geo-poliche e geo-ecomiche che coinvolgono quei Paesi.
La seconda cosa è che i musulmani non sono la prima linea sacrificabile ma sono i popoli sacrificabili a causa di quello che si trova nelle loro terre. Stiamo parlando di popolazioni che assommano centinaia di milioni di persone, una presenza demografica enorme, in Africa, in Asia, in Cina, in India e quindi rendiamoci conto della forza dei numeri e i luoghi in cui si trovano quei giacimenti: in Mali, in Niger, in Algeria, in tutto il Medioriente… e quello che si trova in Afghanistan, nel Caucaso: litio, uranio, petrolio e gas, terre rare.
I musulmani sono centrali dal punto di vista economico e demografico; questa loro condizione fa sì che siano determinanti dal punto di vista dei mercati in cui si trovano e impegnativi per il loro numero. Non si tratta quindi di una linea geografica e geostrategica ma soprattutto demografica ed economica
Tenendo conto di tutto questo, per non essere schiacciati è necessario che comprendano bene la realtà che vivono. Devono acquisire l’intelligenza del contesto, che si trovino in Occidente, in Africa o in Asia e la presa di coscienza del ruolo determinante che avranno negli anni a venire. Questo implica che non possono continuare a sognare un’unità che non realizzeranno mai, ma assumere la certezza della propria forza, escludendo ogni vittimizzazione. Tutte le forze intorno a noi ne hanno coscienza mentre noi fatichiamo a rendercene conto.