La guerra in Afghanistan iniziò il 7 ottobre 2001 quando, a meno di un mese dall’attentato al World Trade Center, gli Stati Uniti, anche con il supporto italiano, lanciarono l’operazione Enduring Freedom (Libertà Duratura). L’obiettivo dichiarato chiaro e condiviso dai media occidentali era quello di liberare il paese dai talebani, dal terrorismo, quando persero la guerra però, con i talebani si sono seduti al tavolo.
Oggi sono tutti preoccupati di cosa stanno facendo i talebani nelle province, il segretario alla difesa americano Lloyd Austin ha detto che gli Usa non hanno la capacità di aiutare gli afghani fuori da Kabul a viaggiare in sicurezza verso l’aeroporto della capitale per essere evacuati; tuttavia, per vent’anni sono piovute bombe su Kabul, Kandahar, Jalalabad e su migliaia di piccoli villaggi afghani di cui non sappiamo nulla, ma nessuno si preoccupava.
L’Afghanistan sotto l’occupazione americana era un paese dilaniato dalla povertà e dalla fame. Secondo il World Bank nel 2012 la Percentuale di popolazione che viveva al di sotto della soglia di povertà nel 2012 era del 36%, sempre il World Bank ,nel “Afghanistan at a glance” ( l’Afghanistan in sintesi), pubblicato il 25/2/2011 riporta che l’Aspettativa di vita era di 44 anni. Secondo UNICEF nel 2011 il Tasso di alfabetizzazione degli Adulti uomini era del 39% e quello delle Donne del 13%
Inoltre, era un paese dove l’Isis è riuscito ad entrare e da dove milioni di afghani sono fuggiti. L’Iran ha accolto milioni di profughi afghani in questi anni. Secondo le ultime comunicazioni ricevute dal governo nell’ottobre 2020, sono due milioni gli afghani senza documenti, e sono circa 600 mila gli afghani che possiedono un passaporto, che vivono in Iran. Tuttavia, le uniche immagini che girano sui social sono immagini di soldati americani che cullano bambini.
I primi soldati italiani entrarono in Afghanistan nel 2004, gran parte della stampa mondiale giustificò bombardamenti, si parlò di Guerra giusta con obiettivi chiari e condivisibili e Venne teorizzato il concetto di esportazione della democrazia.
Ma questo concetto ha qualche base solida, o qualche studio che lo possa avallare? Dal momento che riguarda da vicino la vita di intere popolazioni. Nonostante l’evidente importanza del tema, sorprendentemente, esiste poca ricerca sistematica sui fattori che determinano il successo o il fallimento della democrazia imposta dall’esterno.
Quello che gli studi esistenti suggeriscono è che, sebbene ci sia la possibilità che l’intervento promuova una riforma democratica nel breve periodo, esso finisce per produrre instabilità politica nel lungo periodo. Le analisi che si concentrano principalmente sull’intervento statunitense di solito giungono alla conclusione che l’intervento non conduce alla democrazia. Un lavoro recente di Bueno de Mesquita e Downs (2006) suggerisce che, sebbene i capi degli Stati che intervengano affermino spesso che uno dei loro obiettivi principali è istituire la democrazia, l’intervento di parti terze porta “a poco o nessun miglioramento, e troppo spesso all’erosione, della traiettoria verso uno sviluppo democratico”.
Sottoponendo a test empirico, hanno esaminato l’impatto di un intervento militare sul livello di democratizzazione del “paese obiettivo”. Essi hanno constatato che gli interventi militari da parte dell’ONU o di stati autoritari o di altre democrazie, come gli Stati Uniti hanno portato a una riduzione statisticamente significativa della democrazia, relativamente a quanto sarebbe potuto accadere se non ci fosse stato alcun intervento.
Tuttavia, per comprendere meglio la posizione degli Stati Uniti negli ultimi anni Novanta e primi anni 2000, è bene rifarsi ai libri di storia contemporanea. Gli Stati Uniti, nel corso degli anni Novanta, hanno trasformato e cambiato il ruolo della NATO, l’alleanza militare che risaliva alle origini della guerra fredda. Con il progetto clintoniano Partnership for peace (Gennaio 1994), la NATO, da strumento militare difensivo e d’area, divenne un’alleanza militare operante in un contesto globale, che possa attuare anche azioni difensive in qualsiasi luogo. (fonte: L’età della globalizzazione, Sandro Rogari)
Perciò il presidente Clinton (e poi Bush jr), aveva già elaborato un modo con cui gli Stati Uniti potessero sempre intervenire con il proprio potenziale politico e militare, in qualsiasi aerea, per curare gli interessi americani con un’azione preventiva, anche al di fuori ed indipendentemente dall’avallo della comunità internazionale. Difatti, la prova di questa evoluzione fu l’attacco all’Afghanistan del 2001.
Dagli studi citati e dai fatti storici riportati è razionale dedurre che il concetto di esportazione della democrazia non esiste, non è supportato da alcuna evidenza documentabile. Questa convinzione di guerra giusta deriva dalla diffusa credenza occidentale di possedere una morale superiore ed intaccabile rispetto alle etiche delle terre afroasiatiche, travolte dalle conquiste e dai conflitti coloniali, anche grazie alla tranquillizzante sicurezza loro garantita dalla superiorità tecnologica, scientifica e militare.
Ma l’etica non c’entra con la superiorità tecnica, è la tecnica a dover rendere conto all’etica, negli ultimi venti anni l’occidente ha lavorato per far credere che ci fosse un solo modo giusto di governare, e che andasse esportato, facendo credere che sia una guerra giusta, senza raccontare dei morti, feriti e profughi, ma tornando a parlarne quando fa comodo.