Il Presidente della Repubblica tunisina, Kais Saied, che il 25 luglio, con l’appoggio dell’esercito, ha avocato a sé tutti i poteri – esecutivo, legislativo e giudiziario – ha infine nominato, come prometteva da tempo di fare, un nuovo capo di governo.
Oh sorpresa! Si tratta di una donna. La sonnolenta opinione pubblica occidentale apre un occhio, perlopiù compiaciuta: “Bravo! La prima donna capo di governo del mondo arabo! La Tunisia può andarne fiera”. Nel paese lo stesso fanno molte donne. E anche molti uomini.
Come d’incanto, ci si dimentica che la Tunisia era anche, fino al 25 luglio, la prima democrazia del mondo arabo. A spazzar via le istituzioni che fanno una democrazia – la separazione dei poteri, una costituzione, un parlamento, un governo, una magistratura indipendente, mezzi di comunicazione di massa autonomi – è stato lo stesso Kais Saied. Sicchè oggi, per una donna di nome Nejla Bouden Rhomdhan, sconosciuta ai più, che entra nello spazio del governo, ce n’è una quantità di altre che ne esce.
A cominciare da una cinquantina di deputate al parlamento: il 23%, percentuale non esaltante, ma nemmeno trascurabile, tanto più che tra di esse c’è anche la vice-presidente dell’assemblea. Soprattutto, si tratta di donne che sono state elette, non nominate da chicchessia. In linea di principio devono ringraziare soltanto i propri elettori e rispondono solo ad essi. Si potrebbe obiettare che esse devono pur qualcosa ai partiti che le hanno messe in lista ma questa obiezione è relativamente debole perché in Tunisia, grazie ai princìpi di parità di genere introdotti dalla costituzione del 2014, c’è una legge elettorale che obbliga i partiti a osservare l’alternanza uomo-donna nelle liste.
Tale princìpio è stato ulteriormente rafforzato dalla legge elettorale promulgata in occasione delle prime elezioni amministrative del 2018. Essa ha aggiunto alla parità “verticale” nelle liste anche la parità “orizzontale”: ogni partito che presenta più liste deve dividerle equamente tra capilista uomini e donne.
Se la Tunisia ha motivi di fierezza per quanto riguarda la presenza delle donne in politica, questi motivi vanno dunque cercati in gran parte negli acquis della Rivoluzione, e sono frutto dell’impegno delle donne stesse e non di benevoli concessioni di uomini. Basta ricordare la strenua lotta e la risicata maggioranza con la quale, nell’Assemblea Costituente, è stato approvato l’articolo 45 della costituzione che recita, tra l’altro: “… Lo Stato si adopera per realizzare la parità tra la donna e l’uomo nelle assemblee elettive …”.
Esso ha spaccato trasversalmente quasi tutti i principali partiti perché iscrivere nella Costituzione una “azione positiva” in carico allo Stato è qualcosa che fa storcere il naso anche a parecchi teorici nostrani della democrazia liberale. Tuttavia è grazie a tale dettato costituzionale che molte donne hanno avuto la possibilità di emergere (nel bene e nel male) nell’arena parlamentare, mentre altre si sono affermate nei consigli comunali e come sindaco. Tra queste la sindaca di Tunisi, Souad Abderrahim, prima donna a fregiarsi dell’antico titolo di sheikh al medina. E se anche le elette subivano pressioni nessuno aveva il potere di rimuoverle dalla loro carica: una notevole garanzia di autonomia.
Non si capisce quindi per quale motivo ci si debba rallegrare se al posto di tante elette è subentrata una donna nominata da un autocrate al quale dovrà rispondere e che può decidere di rimuoverla quando vuole. Una settimana prima della nomina di Nejla Bouden il Presidente Kais Saied ha emanato una serie di decreti presidenziali che rafforzano ulteriormente i suoi poteri.
E prima di nominare un capo di governo, come da tempo gli veniva richiesto, ha preso cura di decretare che il potere esecutivo viene esercitato dal Presidente della Repubblica “con l’aiuto di un Consiglio dei Ministri “ che egli stesso presiede, riservandosi la possibilità “di dare mandato al capo di governo di sostituirlo”. Un ruolo subalterno che sembra ritagliato su misura per fornire al capo un docile strumento del suo potere. E tuttavia si tratta di un’abile mossa: distrae l’opinione pubblica interna dalle troppe promesse non ancora realizzate e fornisce alle democrazie esterne un alibi per sostenere il nuovo regime autoritario.
Nejla Bouden, professore universitario di geologia, con alle spalle qualche incarico amministrativo nell’ambito del Ministero dell’Insegnamento Superiore, ha esordito dichiarando con un tweet che si dedicherà alla lotta alla corruzione, il cavallo di battaglia di Kais Saied. A fronte di questo vasto programma non una parola viene spesa per le scadenze immediate: il rinegoziato del debito con il Fondo Monetario Internazionale a fine ottobre e la chiusura del bilancio a fine anno.
Mentre il paese è sull’orlo del default la professoressa Bouden fa sapere che formerà un governo con molte donne. Non dice nulla però su ciò di cui le donne (e gli uomini) parlano tutti i giorni: il carovita. Mentre i prezzi dell’agroalimentare continuano a salire – ignorando gli accorati appelli del presidente – quest’ultimo si accinge a metter mano ad una nuova costituzione, avendo nel frattempo sospeso quella in vigore. Al mercato centrale di Tunisi una signora guarda sconsolata un cespo di lattuga (avvizzita) dal prezzo esorbitante poi si rivolge ad una amica dicendo: “Niente insalata nel menu di oggi. La sostituirò con qualche foglio della costituzione”.