Ora non c’è proprio alcun dubbio: il fascismo è tornato. Anzi pare non sia mai andato via. Inneggia alla violenza, assalta sindacati, fomenta masse arrabbiate nelle piazze e prepara una furente rivoluzione. Sotto i riflettori mediatici i fasci tornano a brillare, come sinonimo di violenza di gruppo, una specie di bullismo adolescenziale trasferito al mondo adulto.
Ma in verità il fascismo è stato molto altro. Un partito capace di: ottenere un consenso unico grazie a una propaganda conformista; escludere il diverso dal confronto democratico; discriminare i cittadini e i loro diritti controllandoli in maniera totalitaria; inneggiare alla retorica del sacrificio, dell’unità e della patria; auspicare l’avvento di una nuova era di salute ed efficienza. Oddio sembrano proprio i tratti di coloro che detengono l’attuale potere. Quale spaesamento! Allora chi sono i fascisti? Quelli così ribattezzati o proprio coloro che usano tale appellativo?
Nessuno dei due. Si tratta semplicemente di un termine, ingobbito dalla sua storia centenaria, che per opportunismo o sciatteria viene impropriamente rianimato, da una parte e dall’altra. Come passare il tempo a definirsi con infantile disprezzo neoborboni, crociati, garibaldini o briganti.
Meglio vederli più da vicino allora questi due gruppi che amano insultarsi, usando con fantasia lo stesso epiteto: fascisti! Da una parte c’è l’uomo nero. Un nostalgico che scimmiotta simboli del passato senza alcuna visione del futuro. Gode nel sentirsi una minoranza, in questo sentimento ripone sete di vendetta e senso di grandezza. Semmai avesse la possibilità di diventare maggioranza, passerebbe a una qualunque ideologia minoritaria pur di restare una subcultura.
Prova fascino per la violenza, solo se sorretta dal gruppo. Si ostina ancora a usare la parola: valori. E con essa intende famiglia, tradizione, patria, lealtà che nel frattempo hanno cambiato essenza e significato. È diffidente invece nei confronti della parola cultura, nella sua accezione elitaria; per lui è sinonimo d’inutile e fastidiosa raffinatezza.
Il fare deve sempre prevalere sul pensare. Ma fare cosa poi? In poche parole, l’uomo nero è un piccolo verme, nato nel sottobosco d’ideologie oramai centenarie, che, come querce declinanti, stanno piantate nel loro passato, incapaci però di generare nuove foglie. È così distante dal potere che perfino la violenza in lui si fa miagolio. Abbiamo davvero paura di costui?
A sentire l’altra sponda del fascismo sì. Lì risiede l’uomo oscuro, tra le cui mani il potere si decide, si catapulta sui sottoposti e si esegue. Lui si presenta come il bene e promuove la salvezza. È un sovrano che odia il sovranismo. Parla di crisi e d’implicita guerra, cui oppone valori nuovi come ricostruzione e transizione. L’uomo nero e molti altri uomini più consueti, banali e semplicemente arrabbiati, lo accusano di politiche totalitarie, incostituzionali e liberticide. Insomma lo accusano di fascismo ma l’uomo oscuro nemmeno risponde. Resta seduto, continua a lavorare, brandendo il personale scettro, su cui restano impressi la tecnica e i numeri. L’uomo oscuro è un grande verme nato in una terra senza alcuna vegetazione; lì ha trovato la tecnica e prova a costruire l’artificio del benessere. Abbiamo davvero paura di costui?
Molto di più, senza dubbio, ma niente a che vedere col fascismo. In ogni caso non c’è alcun rischio perché a ogni fascismo che si rispetti corrisponde per fortuna una degna resistenza. Un potere evidente e verticale ha sempre come contraltare una resistenza nascosta e capillare, capace di costituirsi come un secco no all’infinita distesa di sì, provenienti dall’alto.
La Resistenza vera non accetta compromessi tra vita/morte, libertà/oppressione. Tutto o niente insomma. Silenzio, il vocabolo nel corso di un secolo si è spento oramai. Ma a sentire qualcuno la soluzione c’è: la Resilienza! Ecco la nuova Resistenza. Un’odierna provvidenza, che sta a indicare, secondo la Treccani, “la proprietà dei materiali di resistere agli urti senza spezzarsi”.
Insomma una specifica qualità umana, che consiste nel piegarsi, flettersi, rimbalzare senza mai spezzarsi; in altre parole, accettare, farsi fottere e dire sempre di sì in maniera gentile e imperturbabile. Nell’ultimo decennio la resilienza, sempre secondo un approfondimento della Treccani, “è diventata nell’italiano una parola passe-partout, capace di funzionare in qualsiasi campo perché rappresenta forse una promessa, quella cioè di poter sopravvivere, cadere senza farsi male.”
E così si è diffusa dai corsi di psicologia a quelli di addestramento imprenditoriale, dall’economia fino al lessico politico, entrando nel recente PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza). Si è accoppiata con un’altra parola chiave, la competenza, si è trasformata in hashtag fino ad incarnarsi in modaioli tatuaggi. Ma forse la sua accezione più veritiera resta quella ecologica: “a provare la presenza della resilienza in natura, ci sono le piante, quelle che crescono sui pendii franosi…in ecologia la resilienza è definita la velocità con cui una comunità (o sistema ecologico) ritorna al suo stato iniziale, dopo una perturbazione che l’ha allontanata da quello stato.”
È così che la canna pensante sospesa tra due infiniti, con cui Pascal rappresenta la fragilità dell’uomo, diventa infine una pianta, un vegetale che ha come unico scopo quello di ritornare al suo stato iniziale.
La violenza, quella vera, sta nella morte della lingua.