Dopo due mesi di campagna elettorale per entrare nel Consiglio Comunale della Capitale ho raccolto soltanto una manciata di voti. Si trattava anche un po’ di un esperimento sociale condiviso con parte delle comunità islamiche a Roma ma il risultato finale è stato al di sotto di ogni pessimistica aspettativa.
Fortunatamente non sono abituato a grandi trionfi quindi la delusione è stata relativamente contenuta e sono passato rapidamente alla fase di analisi di cosa è andato storto e di cosa invece sembra aver funzionato.
Chi sono e chi mi credo di essere
Sono una persona un po’ ritardata e realizzo spesso le cose fuori tempo massimo: laureato a 42 anni, prima maratona a 43, prima candidatura a 46, suonerò uno strumento nella prossima vita, ecc… Sono anche un po’ dispersivo ed a volte non realizzo nulla di tangibile. Da persona religiosa credo nell’inconoscibile quindi clinicamente sarei anche un po’ matto.
Essendo musulmano e trovandomi a mio agio con la diversità, a Roma ho potuto stringere relazioni con una moltitudine variegata di persone le cui origini vanno dal Magreb al Subcontinente Indiano, ma anche con migranti dall’Africa Sub-Sahariana. Una religione in comune, diverse culture di cui a volte persistono solo impronte sbiadite ma, soprattutto, tanta difficoltà di comunicazione.
Conosco realtà per le quali vengono profusi fiumi di inchiostro in cui abbondano parole come integrazione e dialogo e dalle quali emergono talvolta figure che si propongono come ponti tra mondi diversi. Ma sono realtà che vivono un po’ su un altro pianeta, anzi vivono su diversi altri pianeti. Frequentandole tutte non di rado ci si può sentire come un astronauta in una galassia senza baricentro.
Perché mi sono candidato
Una strada praticamente intentata con questa categoria di persone è quella dell’inclusione sociale anche attraverso il coinvolgimento nella vita politica e quindi nella pratica elettorale. Parliamo di corpi sociali con un’altissima percentuale di astensionismo non per scelta politica ma soprattutto per il viver fuori dalla realtà che li circonda, cioè l’Italia. Qui da noi ottenere la cittadinanza è oltremodo difficile ma l’arduo percorso non garantisce alcun risultato di piena cittadinanza reale. Anche avendo ottenuto il passaporto italiano molte persone continuano a vivere in mezzo a noi come corpi estranei e l’oggetto a loro forse più sconosciuto è proprio la tessera elettorale. Nessuno sembra interessarsi di questo deficit di cittadinanza reale fino a quando sotto elezioni compaiono nomi e volti esotici, a mo’ di nota di colore, nelle liste e sui manifesti elettorali. Qualche candidato di origine straniera è riuscito anche ad essere eletto in Parlamento ma le rispettive comunità di provenienza non hanno fatto passi avanti e restano sempre afflitte dai soliti problemi.
Di chi è stata l’idea
Prima delle misure restrittive, quindi molto prima delle elezioni, alcuni esponenti della comunità islamica bengalese, esponenti sia socio-politici che religiosi, mi hanno chiesto di valutare l’ipotesi di candidarmi. Mi era stata proposta questa cosa motivandola con 3 logiche di fondo: tentare una strada alternativa a quella dell’immigrato che “ce la fa” mentre il resto dei “suoi” non ce la fa; superare i nazionalismi e gli etnicismi che dividono la comunità islamica (tra bengalesi, arabofoni, ecc…); capitalizzare l’esperienza sul diritto al culto che avevamo fatto tutti insieme durante la pesante stagione di chiusure delle moschee a Roma.
La proposta mi lusingava ma alla mia età, e senza alcuna esperienza elettorale, sentivo di dover elaborare una cornice politica in cui inquadrare la cosa. In un paese governato per mezzo secolo da un partito che si chiamava Democrazia Cristiana, e dove adesso abbondano i partiti monotematici (ambientalisti, animalisti, gay…), solo ai musulmani sembra preclusa la possibilità di rimarcare la propria singolarità.
Scartata rapidamente l’ipotesi del partito o della lista islamica, questa proposta almeno in parte identitaria andava in qualche modo formulata. Eppoi, dovendoci mettere la faccia e per rispondere delle mie azioni, dovevo fare al 100% mia questa idea tutta da pensare, per poter stare sulla scena come un burattino senza fili. Questa impostazione è risultata particolarmente utile perché poi parte dei suddetti esponenti è emigrata in UK entro il dicembre scorso, insieme a diverse centinaia di potenziali elettori, per rientrare nei benefici pre-Brexit.
Ho ricevuto da loro sostegno a distanza, anche con dei videomessaggi sui social, ma chi è rimasto qui è risultato poi avere anche altre logiche ed altre agende politiche da portare avanti, parallelamente al sostegno alla mia candidatura. Ormai però avevo fatta mia l’idea, la ritenevo un ideale da perseguire e non mi sarei fermato per nulla al mondo.
La strada percorsa
Ad un certo punto, senza troppo preavviso, in primavera il centro-sinistra ha deciso di fare le primarie, dove possono votare anche i residenti senza cittadinanza, ed io ho deciso di parteciparvi nel Municipio V, il più multietnico della capitale ed oggetto di studi scientifici anche all’estero per questa sua caratteristica. Credo di essere stato il primo ad aver portato il tema della multiculturalità nella politica capitolina, intendo non come semplice cenno, ma ho partecipato alle primarie con una proposta politica a tutto tondo.
Vi ho partecipato, come si dice a Roma, “na scarpa e na ciavatta” oppure, come cantava Pino Daniele, “na scarpa si e na scarpa no, come in un film di Charlot”, ma il risultato è stato una piccola vittoria. Un normalissimo terzo posto caratterizzato però da una coloritura sociale ai gazebo che ha fatto tanto parlare di noi. Buona la prima! Si è mosso un po’ di interesse intorno alla cosa, ho ricevuto più di una proposta ed ho scelto di entrare nel partito Demos dove ho trovato la dimensione in cui diluire questa proposta politica in divenire. Se Gualtieri vincerà il ballottaggio Demos avrà un consigliere in Capidoglio sul quale riverso molte speranze.
Non avendo un obiettivo personale davanti a me mi sono mosso lateralmente nella mia comunità religiosa. Ho passato il mese di agosto a disegnare una partecipazione il più possibile corale e condivisa dei musulmani a Roma nelle liste di Demos, qualcosa in cui il potenziale multiculturale e soprattutto etico della seconda confessione del paese potesse esprimersi. La resa di questa ricerca sono stati candidati, al comune e in alcuni municipi, con origini in 5 paesi oltre all’Italia e in 2 continenti oltre all’Europa. Ma, soprattutto, erano totalmente assenti le forche caudine del mimetismo religioso solitamente richiesto ai musulmani, soprattutto in politica e prepotentemente nel momento elettorale.
Un altro risultato positivo della mia partecipazione alle primarie è stato l’essere considerato forza politica dalla coalizione nel Municipio V dove ho quindi potuto contribuire alla stesura del programma ed inserirvi un impegno a favore del diritto al culto. Ero candidato anche per il consiglio di questo municipio, dove ci sono 15 luoghi di culto informali di varie minoranze religiose, ma neanche qui ce l’ho fatta. In caso di vittoria al ballottaggio della coalizione però questa parte del programma, che rappresenta anche altri bisogni delle comunità immigrate, sopravviverà al mio flop elettorale. E con la persecuzione dei luoghi di culto, non solo moschee, che c’è stata durante la Giunta Raggi trovo che non sia proprio roba da poco.
Cosa è andato storto
Per le elezioni del 3 e 4 ottobre non abbiamo ricevuto adeguato supporto da tutti quelli che nella comunità islamica avevano la possibilità di farlo, e che avevano promesso che l’avrebbero fatto. C’è del velleitario nel pensare che decine di “capi clan” autocefali ed etnocentrici, abituati non collaborare e a non condividere alcuna decisione, possano mettesi al servizio di un’idea del genere e questo è forse l’anello più debole di tutta la catena. Però questa comunità dovrà prima o poi svegliarsi ed essere socialmente più incisiva, anche nel perseguire il bene comune che, sia ben chiaro, non si fa solo mediante la politica né tanto meno in via prioritaria nel momento elettorale. Ma non si può continuare ad essere, in buona parte, corpi estranei alla società quando non semplice bersaglio dei talk show nei momenti in cui il tema mediatico principale è il “pericolo islamico”.
Alle persone comuni, magari senza diritto al voto o senza l’alfabetizzazione elettorale necessaria, siamo però arrivati. Più avanti tenterò di provare questa cosa, della quale sono certo, e che per me è la cifra principale di tutta l’operazione che ha evidentemente un obiettivo di lungo termine. Per una futura resa elettorale sarà necessario un adeguato supporto organizzativo, che è mancato, e forse candidati più catalizzatori di me.
Tra gli effetti negativi del clamore mediatico della mia partecipazione alle primarie c’è stata la caccia al bengalese da candidare (prima erano un corpo sociale ignorato) ed alla fine ne sono sbucati ben 12. Alcuni, di diverse liste e partiti, hanno partecipato ad una sorta di talent show etnico promuovendo insieme il voto italo-bengalese da dare ai candidati italo-bengalesi al comune e nei municipi. Fortunatamente da questa laboriosa comunità sono venuti fuori anche rispettabilissimi candidati che hanno avuto una condotta elettorale impeccabile.
Cosa ha fatto ridere
Non posso fare a meno di guardare al lato a suo modo divertente, quando non tenero, di tutta l’esperienza. La cosa potrebbe essere riassunta nell’ilarità (benevola) sul mio nome da musulmano in lista che mi ha fatto entrare nella Social Top Ten della trasmissione Propaganda Live
Francesco Tieri, candidato con Demos alle elezioni comunali di Roma, detto Abd al-Haqq a Propaganda Live pic.twitter.com/Po2iCvgtvP
— La Luce (@LaLuceNews) October 13, 2021
Ma gli aneddoti da raccontare sarebbero tanti, e tante sono state le testimonianze di affetto a loro modo politiche. Come gli ambulanti che non hanno lavorato per più di una mattina nel tentativo di ottenere la tessera elettorale in questa capitale del disservizio.
Dalle prime ore di apertura dei seggi ho dovuto troncare bruscamente alcune telefonate da numeri sconosciuti che mi arrivavano dall’interno delle cabine elettorali per sapere come votarmi. Ho dovuto cancellare (con un hard reset) le foto ed i video a fiera testimonianza del voto che mi veniva dato, anche voti nulli (chi ha fatto lo scrutatore o il rappresentante di lista in certi quartieri sa di cosa parlo, era successo anche alle primarie). Qualcuno voleva darmi la tessera elettorale per delegare a me il voto (a me stesso), altri volevano votare per corrispondenza da Londra.
Due giorni dopo le elezioni mi ha chiamato mio padre per sincerarsi che effettivamente io avessi chiesto il voto a persone senza diritto al voto e per sapere se mi avessero già ritirato la laurea in ingegneria per manifesta credenza nella magia. Ho effettivamente incontrato tantissime persone, diverse migliaia, per lo più senza cittadinanza. Ma sono persone che vivono gomito a gomito con chi la cittadinanza l’ha ottenuta ed io cercavo una resa elettorale che fosse passata per questa mediazione collettiva, per questo filtro umano, una resa che portasse in dote un’istanza altrimenti non rappresentabile.
Provate a fare un giro da Termini a Centocelle entrando con una mia foto nei negozietti bangla. Non pochi diranno subito “Tierì” (con l’accento sulla lettera finale), qualcuno potrebbe anche scherzosamente dire “Sindaco!!!” (se avverte il clima amichevole).
Lo stesso può succedere con un ambulante senegalese che è stato al raduno a Ladispoli del 26 settembre (ripreso dalla gag televisiva di Propaganda Live), sicuramente succederebbe andando in una moschea a Roma con una mia foto. Non mi sento affatto Il Sindaco del Rione Sanità di Eduardo De Filippo, e nemmeno Un Turco Napoletano alla Totò, ma vi assicuro che è difficile per me non vedere nella cosa un potenziale di inclusione sociale agli albori.