Opera in Italia da ormai oltre trent’anni un partito politico, che ha avuto origine ed è cresciuto sulle ceneri della cosiddetta prima repubblica, quella prima repubblica nata dopo la fine del secondo conflitto mondiale e che ha cessato di esistere nei fatti agli inizi degli anni novanta quando, con le inchieste di mani pulite, un gruppetto di magistrati allora sconosciuti, con a capo un ex poliziotto di nome Antonio Di Pietro, sconvolse quello che era stato fino a quel momento l’assetto consolidato del potere in Italia.
Stiamo parlando di quella formazione politica nata come Lega Lombarda, che ebbe leader e fondatore quello che fu il geniale uomo nuovo della politica italiana, Umberto Bossi. Quel partito, la Lega, ottenne un certo successo riprendendo e dando forza al tema del federalismo nel panorama politico italiano. Il federalismo, che in concreto nelle intenzioni leghiste, avrebbe dovuto significare la suddivisione dell’Italia in macroregioni autonome, nelle quali il nord avrebbe dovuto avere la possibilità di sottrarsi al dominio del centralismo romano e alle sue pretese fiscali e sviluppare un’autonomia sempre più marcata, al limite dell’indipendenza totale.
Quella Lega ebbe successo, un successo per certi versi sorprendente, perché trovò la chiave comunicativa giusta nei confronti di una buona parte dell’elettorato del Nord Italia: piccoli imprenditori e commercianti, ma anche agricoltori e operai dell’industria; un elettorato che si era trovato disorientato dopo mani pulite, ed il crollo del muro di Berlino, e si sentiva orfano della Democrazia Cristiana, la balena bianca della politica italiana, anch’essa sgretolatasi nella tempesta mediatico-giudiziaria dei primi anni 90, e del partitone rosso, il partito comunista italiano.
La Lega di quegli anni parlava alla gente in modo rozzo – e una certa rozzezza costituirà sempre la sua principale cifra stilistica-, ma efficace; e anche per questo piaceva. In estrema sintesi questo era il suo messaggio: il nord Italia costituisce la parte più ricca, più evoluta e più produttiva del paese, liberiamoci dal dominio di una classe politica sostanzialmente parassitaria che ha a Roma il suo centro di potere e che prospera foraggiando col clientelismo ceti improduttivi, che sfruttano il lavoro e la ricchezza delle operose genti del nord.
Questa è stata per anni la Lega di Bossi. Poi, con lo scorrere degli anni, il gruppo dirigente che ne tenne le redini, il cosiddetto “cerchio magico” che circondava il leader, si impantanò in vicende grottesche e meschine, in squallide ruberie, in miserie nepotistiche, insomma in storiacce che ne decretarono il declino, declino che parve inarrestabile fino alla rivoluzione e alla rigenerazione voluta e condotta da Matteo Salvini, giovane astro nascente della politica italiana, che ne ha risollevato le sorti elettorali trasformandola e però in certa misura snaturandola, portandola dalla tristezza del 4% dei suffragi nella quale era caduta nell’ultimo periodo di dirigenza bossiana, fino alle recenti fortune elettorali che ne hanno fatto una delle principali forze elettorali italiane.
Tuttavia, questa rigenerazione, questa catarsi non è stata gratuita, non è avvenuta senza pagare un pesante pedaggio in termini di natura e identità dell’entità leghista, che si è vista trasformare da partito dell’autonomia, se non dell’indipendenza nordista, in una formazione di destra tout court e con un termine oggi di moda, sovranista, difficilmente distinguibile da un qualunque partito di estrema destra, in diretta concorrenza con l’altra grande formazione di destra della politica italiana, il partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia.
Addio federalismo dunque, addio suggestive cerimonie neopagane alle sorgenti del Po, addio simboli padani; ma ora, per la gioia di un certo mondo cattolico, pubblici rosari, pubbliche consacrazioni dell’Italia tutta al cuore immacolato di Maria.
La Lega di una volta, la Lega del famoso e mitico celodurismo bossiano, se la prendeva principalmente con i “terroni”, cioè con i meridionali a cui attribuiva ogni male, ogni nequizia; meridionali dai quali bisognava separarsi e lasciare al proprio destino, magari anche con quel tricolore che Bossi, come ebbe a dire ad una signora che l’aveva incautamente sventolato, voleva destinato ad arredare la toilette. Per la verità il Senatur usò un termine leggermente più crudo.
I tempi cambiano, è nelle cose; e la Lega non è più la Lega Lombarda e neppure la Lega Nord, è la Lega di Salvini, e i meridionali, almeno come nemici e fonte di ogni nequizia, sembrano spariti dal suo orizzonte, anzi li si corteggia e se ne chiede il consenso mentre canzonacce inneggianti al Vesuvio e al suo fuoco purificatore sono non solo dimenticate, ma si direbbe che non siano mai esistite.
Tuttavia un nemico per esistere bisogna pure averlo; il nemico dà un senso e una dimensione: delimita i confini, conferma l’identità, raccoglie le forze. Nella Lega attuale, in questo non differenziandosi dal partito di Giorgia Meloni, sembra che i nemici su cui dirigere la propria potenza di fuoco siano in grande misura gli immigrati, di cui per raccogliere facili consensi, ne denuncia una supposta invasione. E poiché anche se non tutti, ma una gran parte delle genti che arrivano in Italia sono musulmane, ecco che l’Islam è diventato un naturale e facile bersaglio per gli eredi di Bossi.
Ai musulmani la Lega contesta il diritto ad avere dei luoghi di culto, siano esse semplici sale di preghiera, ottenute adattando allo scopo locali di fortuna, o moschee vere e proprie, come sarebbe un naturale loro diritto, diritto sancito dall’articolo 19 della Costituzione italiana, e ogniqualvolta una qualsiasi comunità islamica italiana rivendica il diritto ad avere un luogo dove riunirsi per pregare, e si appresta ad edificare una moschea, ecco immancabile, magari in consiglio comunale il consigliere leghista di turno alzare il ditino ed eccepire sulla moschea di cui non si conoscerebbero i finanziatori e di cui si sostiene una mai dimostrata intrinseca pericolosità della gente che vi andrebbe a pregare.