La mia generazione non ha conosciuto la guerra ma nemmeno la pace

Guerra e Pace è un capolavoro assoluto della letteratura mondiale, a mio modesto parere il romanzo più bello che mai sia stato scritto. Tolstoj racconta, con la sua magica penna, le vicende di Pierre Besuchov, di Andrei Bolkonsky, della famiglia Rostov, e di numerosi altri personaggi minori protagonisti di un romanzo che segue due piani: quello delle vicende personali, la piccola storia di ogni essere umano, e quello del grande flusso degli avvenimenti, che come lo scorrere di un grande fiume trascina nella corrente la vita delle persone: la grande storia. La guerra e la pace, due condizioni, due momenti della vita del mondo, che nel grande romanzo tolstoiano si alternano e dettano i tempi della narrazione. 

La mia generazione, come tutte quelle nate dopo la fine della seconda guerra mondiale, non ha conosciuto la guerra, quantomeno non ha conosciuto il lato terribile, catastrofico della guerra. La guerra ha potuto vederla in immagini trasmesse da paesi lontani e sfortunati in tv, oppure al cinema dove la produzione di film di guerra è stata ed è tuttora sconfinata, e per chi ama la lettura, ha potuto leggerne nei romanzi. Al cinema la guerra a volte è stata raccontata in modo magistrale e terribilmente realistico, penso a Salvate il soldato Ryan di Stephen Spielberg, o abbiamo potuto gustarne il lato tragico, ma anche avventuroso ed eroico, come appunto nel capolavoro di Tolstoj.

Altre volte, specie in pellicole precedenti a quella di Spielberg, la guerra veniva invece spesso rappresentata in modo convenzionale e retorico, in un modo tutt’altro che realistico, quindi sostanzialmente falso, tanto che si aveva l’illusione che morire in battaglia fosse una cosa semplice e pulita, giusto il fotogramma di un eroe colpito da una pallottola vagante o da una freccia scagliata da un perfido pellerossa, mentre con una mano portata al cuore esala l’ultimo respiro e riserva l’ultimo pensiero alla donna amata, lasciata a casa in trepida attesa.

Era quella una morte bella ed eroica, alla quale di solito seguivano sul grande schermo della sala cinematografica i titoli di coda che apparivano in sovraimpressione su uno sfondo convenzionale, che poteva essere un rosso tramonto, un cielo lontano, una prateria, cose così, e una musica adatta alla solennità del momento chiudeva lo spettacolo.

La generazione detta del baby boom, alla quale appartengo, e le generazioni successive, non hanno conosciuto la guerra, perlomeno non la guerra convenzionale e dichiarata, con l’orrendo contorno di bombardamenti e orrori. Tuttavia non sempre la mancanza di guerra significa necessariamente pace. I conflitti in questi anni del dopoguerra nella società italiana non sono certo mancati e, si pensi alla lunga stagione del terrorismo, a volte anche il sangue, e non in piccola quantità, è scorso.

Tacito, il grande storico romano, scrisse così: dove fanno il deserto, lo chiamano pace (ubi solitudinem faciunt, pacem appellant). Già, perché un mondo che non conosce solidarietà, un mondo ingiusto, dove pochi hanno tutto e gli altri vivono precariamente in una perenne condizione di bisogno, dove la gente è spinta dalla disperazione ad emigrare e a mettere in pericolo la propria vita in perigliose traversate in mare – recentissima è la notizia dell’ennesima tragedia che ha visto la morte di una trentina di migranti nel canale della Manica-; una società che non conosce accoglienza e rispetto, che nega ogni senso spirituale, e dà valore solo a una visione economicistica della vita, anche se formalmente la guerra convenzionale è assente, non è una società autenticamente in pace. 

Una società che non conosce giustizia e solidarietà, come ha scritto Tacito, è una società simile al deserto.

La pace è armonia dell’essere umano con se stesso e con la realtà che lo circonda. Per realizzarsi, la pace deve iniziare a vivere nel cuore delle persone, possibilmente di ogni persona. Essa è una condizione innanzitutto spirituale, uno sforzo interiore, parte integrante di un Jihad dell’anima.