Alla fine ci sono riusciti. Ancora una volta, tanto muoversi pur di non smuovere nulla.
Un inizio consueto, con le tante voci di corridoio che traslocano man mano tra le pareti delle stanze segrete. Là dove, in una frenesia di conciliaboli, i capi fingono di fare la voce grossa ma al massimo hanno la battuta pronta. Il suono della campanella invita al silenzio, finalmente inizia la conta. Cognomi semplici, nomi e cognomi, spazi bianchi, qualche provocazione. È così che i soldatini iniziano a contarsi per tastare la fedeltà al gruppo e la forza del branco. Le schede scorrono una dietro l’altra in un cerimoniale nato già stanco, perché si sa che non basta sommare schede per fare un’elezione.
I nomi continuano a circolare. Tra tutti svettano due vecchi amori. Il primo rappresenta la riconciliazione con l’essenza di un paese millantatore, affabulatore, lacerato e profondamente fragile. L’altro incarna l’arte del compromesso e del vuoto retorico. Niente da fare: uno piace molto a pochi e per nulla ai più, l’altro suscita indifferenza a tutti. Nell’impotenza dell’aula, d’un colpo qualcuno urla: una donna! Ricomincia il parlottio, che cosa, una donna?
L’entusiasmo si propaga, sì, sì, un Presidente donna! Tutti si fregano le mani, pregustando l’approvazione collettiva. Sarebbe la prima volta, il segno di una raggiunta emancipazione. Un’inaugurazione e il nastro rosa verrebbe tagliato senza ricorrere all’elemosina di quote e pietà. La conta ricomincia in un Parlamento, dove si respira un’aria da Nord, quasi da Scandinavia. Fin troppo freddo forse tra i numeri che avanzano.
Dopo un po’ resta soltanto il gelo di un’atmosfera sempre più diffidente. Ma chi eleggere poi? Due ipotesi su tutte: una fin troppo agghindata che sembra essere la sorella del vecchio re oppure un’altra che potrebbe conoscere i segreti di tutti loro. Ecco subentrare il timore: e se queste dovessero metterci in riga? Le donne sono pericolose, si sa. Già ci comandano nella vita privata, perché mai rischiare anche in quella pubblica? Tutti fingono di inseguire candidate diverse, solo per far cadere definitivamente l’idea della donna.
I branchi allora si sparpagliano, i capi tornano a dividersi e occupano la scena con la consueta autorevolezza. Su al Nord vanno pazzi per l’azione e così il loro capo si dimena, attrae i riflettori col suo carattere da fornaio padano. Uno a cui piace stare in mezzo alla gente e agitarsi. Il problema è che dall’ideale bancone di un forno si ritrova tra i banchi parlamentari, dove incontra più di tutti il suo specchio riflesso. Un coetaneo, d’altrettanta tardoneria e piacioneria, che starebbe alla meraviglia tra i vetri di una guardiola fiorentina. Lui che è l’indiscusso principe nell’arte della trama; il migliore a creare liti per poi ricomporle nella vanità del condominio.
Pur avendo meno seguaci del padano, conosce portieri e guardiani d’alto grado, che lo tengono sempre e comunque a galla. Non è da meno nell’arte del galleggiare il più vecchio tra i capi. Garbato, cogli occhi intrappolati in un fondo di languore e vanità. È, sarebbe e tornerà ad essere avvocato, eccelso nell’arte di difendere e promuovere la propria immagine di fronte agli sguardi femminili. Così vicino, così lontano sta il ragionier Letta. Un uomo squisito e gradevole che mamme e nonne vorrebbero a cena per mostrare ai familiari l’educazione. Di certo il primo nell’arte di rassicurare e conciliare, anche se dopo un’ora lo vorresti cacciare di casa, non appena capisci d’aver scambiato l’inconsistenza con la cortesia. In un tale consesso non può mancare il gentil sesso. Una donna fedele e appassionata, con pochi mezzi espressivi e scarne idee, tra le quali mostra un raro privilegio: quello di restare dritta e coerente, col vantaggio e la scusa della solitudine.
È così che le stanze segrete avranno tremato a colpi di grave dialettica e senso dello Stato. Oppure le pareti si saranno man mano liquefatte sotto i riflessi del narcisismo. E il problema non è il legittimo narcisismo ma l’inconsistenza dell’ego riflesso.
La vera domanda è: davvero ci rappresentano? La cosa certa è che di risposte non ne trovano. Allora il terrore inizia a serpeggiare tra i banchi: Oddio che figura, far passare una settimana senza scegliere. E poi che rischio, lavorare anche di domenica… Silenzio improvviso, i capi tacciono, mentre bevono il caffè alzano gli sguardi, che di colpo s’incrociano. Tutti pensano la stessa cosa e lo sanno. Bisogna andare in ginocchio dal Grande Vecchio. Con lui non si corre alcun rischio, nulla cambia. La mano automatica continua a firmare, la cataratta commuove gli occhi del popolo e loro indisturbati riprendono a muoversi senza spostarsi. Sì, sì proprio così. Ma chi ha il coraggio di andarci a parlare?
Gli sguardi s’incrociano ancora una volta, un po’ più bassi. C’è un’unica soluzione: chiamare lui, il gigante nell’ombra. Lui che parla poco e decide tutto. Proprio lui che il potere ce l’ha stampato in quel ghigno diabolico sulle labbra, lui che non ha bisogno di guardare o di curarsi degli sguardi altrui. La chiamata arriva, lui risponde; poche sillabe prima di riprendere il telefono per fare una telefonata, anzi due. I capi tornano a comunicare coi loro branchi. Si vota, scelta è fatta. Il paese è salvo, la comunità internazionale tira un sospiro di sollievo. È stato come assistere inani all’ombra di un gigante.