Le costanti restrizioni alle preghiere e la chiusura della grande moschea Jamia Masjid di Srinagar fanno sentire i Musulmani con le catene al collo, poiché le autorità indiane vedono l’istituzione religiosa come il “centro nevralgico” delle proteste che sfidano la sovranità di Nuova Delhi sulla regione contesa
Jamia Masjid, la grande moschea di Srinagar, domina il quartiere nel quale sorge con un imponente cancello principale e massicci torrioni. Può contenere 33.000 fedeli e, in occasioni speciali nel corso degli anni, centinaia di migliaia di Musulmani hanno riempito i vicoli e le strade vicine attorno alla moschea.
Ma le autorità indiane considerano la moschea un luogo problematico, quello che chiamano il “centro nevralgico” delle proteste e degli scontri che sfidano l’India sulla contesa regione del Kashmir.
Per i Musulmani del Kashmir si tratta di un luogo sacro in cui svolgono la preghiera del venerdì e di una sede in cui poter alzare la voce per i propri diritti politici.
In questo duro conflitto, negli ultimi due anni la moschea della città principale del Kashmir è rimasta in gran parte chiusa. L’Imam della moschea è stato costretto al suo domicilio quasi ininterrottamente per tutto questo tempo, e ogni venerdì il cancello principale della moschea rimane chiuso con un lucchetto e bloccato con fogli di lamiera ondulata. La chiusura della moschea, venerata dalla popolazione prevalentemente musulmana del Kashmir, non ha fatto altro che contribuire a far aumentare la rabbia dei fedeli.
“Ho sempre la sensazione che manchi qualcosa nella mia vita”, dice Bashir Ahmed, 65 anni, un impiegato del governo in pensione che ha pregato nella moschea per oltre cinque decenni.
Le autorità indiane hanno rifiutato di commentare le restrizioni imposte alla moschea nonostante le ripetute richieste di The Associated Press (AP). In passato, i funzionari avevano affermato che il governo era stato costretto a chiudere la moschea perché il suo comitato di gestione non era riuscito a fermare le proteste contro l’India che si tenevano nei locali.
La chiusura della moschea, la cui costruzione risale a più di 600 anni fa, è avvenuta durante una repressione iniziata nel 2019 dopo che il governo ha privato il Kashmir del suo status semiautonomo di cui godeva da lungo tempo.
Negli ultimi due anni, alcune delle altre moschee e santuari della regione, anch’esse chiuse da mesi dalla repressione del governo indiano e ulteriormente dalla pandemia, sono state autorizzate a offrire servizi religiosi.
L’accesso dei fedeli a Jamia Masjid è stato negato per la preghiera del venerdì, il giorno più importante del culto in congregazione nell’Islam. Le autorità consentono alla moschea di rimanere aperta durante gli altri sei giorni, quando solo poche centinaia di fedeli si riuniscono, rispetto alle decine di migliaia che spesso si radunano il venerdì.
“Questa è la moschea centrale dove i nostri antenati, studiosi e maestri spirituali hanno pregato e meditato per secoli”, afferma Altaf Ahmad Bhat, uno dei funzionari della grande moschea, respingendo le motivazioni dell’ordinanza citate dalle autorità che definisce “assurde”, e aggiungendo che le discussioni su questioni sociali, economiche e politiche che riguardano i Musulmani sono sempre state una funzione religiosa fondamentale per qualsiasi grande moschea.
La grande moschea è principalmente riservata alle preghiere in congregazione obbligatorie del venerdì e ad altre funzioni speciali. Le preghiere quotidiane obbligatorie si tengono solitamente nelle moschee di quartiere più piccole.
Per i Musulmani della regione, la chiusura della moschea riporta alla mente i ricordi dolorosi del passato. Nel 1819, i governanti sikh la chiusero per 21 anni. Negli ultimi 15 anni, è stata soggetta a divieti e blocchi periodici da parte dei governi indiani che si sono succeduti. Ma le attuali restrizioni sono le più severe da quando la regione è stata divisa tra India e Pakistan, dopo che le due nazioni hanno ottenuto l’indipendenza dal colonialismo britannico nel 1947. Entrambe rivendicano il territorio himalayano nella sua interezza.
Inizialmente il governo indiano ha dovuto affrontare le manifestazioni di protesta, in gran parte pacifiche, che ambivano ad un Kashmir unito, o sotto il dominio pakistano o come stato indipendente. Ma il giro di vite attuato sul dissenso ha provocato l’esplosione del Kashmir, conducendo, nel 1989, ad una ribellione armata contro l’India. L’India ha da subito sostenuto che l’insurrezione era terrorismo fomentato dal Pakistan, un’accusa che il Pakistan ha negato.
Circa 10 anni fa le forze indiane hanno in gran parte soppresso la ribellione, nonostante le richieste popolari di Azadi, libertà, siano rimaste connaturate nella psicologia del Kashmir.
La regione è passata dalla lotta armata alle proteste senza armi, con decine di migliaia di civili scesi in piazza a più riprese per protestare contro il dominio indiano, provocando spesso scontri letali tra i residenti che lanciavano sassi e le truppe indiane. La grande moschea e le aree circostanti, nel cuore di Srinagar, si sono dimostrate come luoghi fondamentali nell’organizzazione di queste proteste.
I sermoni al Jamia Masjid parlavano spesso del conflitto in corso da tanti anni. Mirwaiz Umar Farooq, il capo Imam e uno dei massimi leader della regione, teneva discorsi appassionanti che parlavano della lotta politica del Kashmir.
Le autorità hanno cercato di arginare e reprimere, vietando le preghiere nella moschea per lunghi periodi. Secondo i dati ufficiali, la moschea è stata chiusa per almeno 250 giorni, tra il 2008, 2010 e 2016.
Il conflitto si è nuovamente intensificato dopo che il primo ministro Narendra Modi è salito al potere nel 2014, e quando ha vinto per la seconda volta le elezioni, in maniera schiacciante, nel 2019.
Il governo del partito nazionalista indù di Modi, il Bharatiya Janata Party (BJP), ha rafforzato la sua posizione sia contro il Pakistan che contro il Kashmir, con aggressioni sempre più numerose degli estremisti indù contro le minoranze che vivono in India, aggravando ulteriormente le frustrazioni tra i Musulmani del Kashmir.
Ma una nuova ondata di ribelli ha fatto rivivere la lotta in Kashmir, sfidando il governo indiano con un utilizzo molto efficace dei social media. L’India ha risposto con operazioni, a volte mortali, messe in campo contro le insurrezioni.
La libertà religiosa sancita dalla Costituzione indiana consente ai cittadini di seguire e praticare liberamente la propria religione. La costituzione afferma inoltre che lo stato non “discriminerà, patrocinerà o si intrometterà nella professione di alcuna religione”.
Ma gli addetti ai lavori affermano che le condizioni dei Musulmani indiani dopo la salita al potere di Modi in Kashmir erano già peggiorate, anche prima dell’attuale operazione di sicurezza (la chiusura di questa importante moschea), .
In Kashmir, la chiusura della moschea più venerata ha aggravato questi timori.
“Jamia Masjid rappresenta l’anima della fede dei Musulmani del Kashmir ed è rimasta il luogo simbolo delle richieste di diritti sociali e politici sin dalla sua fondazione, avvenuta circa sei secoli fa”, afferma Zareef Ahmed Zareef, poeta e storico orale. “La sua chiusura è un attacco alla nostra fede”, aggiunge.
In occasioni speciali come l’ultimo venerdì del mese di digiuno del Ramadan, centinaia di migliaia di fedeli hanno sempre pregato nella moschea, riempiendo i vicoli e le strade tortuose del quartiere. Negli ultimi due anni, tali scene sono scomparse. I Musulmani affermano che il bavaglio imposto dal governo sta minando il loro diritto costituzionale alla libertà religiosa.
Ahmed, uno dei tanti fedeli, un sabato pomeriggio di poco tempo fa si è seduto all’interno della moschea, una meraviglia architettonica costruita in legno e mattoni con 378 pilastri di legno. Ha detto di non aver mai visto la moschea chiusa e desolata per un periodo così lungo.
“Mi sento privato e violato”, dice Ahmed alzando le mani in segno di supplica. “Siamo stati sottoposti ad un’estrema sofferenza spirituale”, aggiunge.
Molti Musulmani del Kashmir affermano ormai da tempo che Nuova Delhi limita la loro libertà religiosa con il pretesto dell’osservanza della legge e dell’ordine, ma allo stesso tempo promuove e patrocina l’annuale pellegrinaggio induista presso una gelida grotta himalayana, visitata da centinaia di migliaia di indù provenienti da tutta l’India.
Il pellegrinaggio di Amarnath dura quasi due mesi, anche se negli ultimi due anni è stato annullato a causa della pandemia.
Qualche venerdì fa, con la moschea chiusa, il vasto mercato che è situato in un quartiere solitamente molto vivace, aveva un aspetto deserto.
Babul, un uomo sulla quarantina con problemi mentali che abita in questo luogo, dentro e intorno alla grande moschea, si aggirava per il quartiere. Stava avvisando i negozianti del pericolo imminente dell’irruzione della polizia nel luogo, come già avvenuto in passato. Nelle vicinanze, un gruppo di turisti indiani va in giro a scattare selfie avendo sullo sfondo il cancello principale della moschea barricato e chiuso a chiave.
Gli spettatori del Kashmir li osservano in silenzio.