Invivibili e monumentali, accoglienti e caotiche, vecchie di cinismo e infantili di speranza: sono le grandi metropoli italiane. Roma, Milano, Napoli e Torino, per citare soltanto quelle più popolose. Ognuna sembra poggiarsi su un continente a sé stante ma in fondo tutte hanno qualcosa che le accomuna e allo stesso tempo le divide, rendendole assolutamente italiane. È il loro rapporto col tempo.
Torino e Napoli hanno lo sguardo strabico di chi lascia un occhio impigliato nella nostalgia del passato e l’altro fermo a immaginare il futuro. Napoli e Torino vivono nella perenne incapacità di abitare il presente. L’incapacità di chi è consapevole che la grandezza monarchica mai più tornerà e di chi sa che il mare è in fondo una condanna capace di lasciare invariata ogni cosa. Cullate dalla risacca del tempo, perché agitarsi tanto in vista del futuro?
E così la borghesia, quella vera, non è mai riuscita a mettere radici in queste terre. È cresciuta come un rigetto in mezzo alla natura bipolare cittadina, sospesa tra plebe e aristocrazia, proletariato e monarchia. Da una parte un’aristocrazia austera e regale, protetta dalle Alpi, incastonata in mezzo a viali monumentali, obbedienti alla logica di un puro spirito geometrico. Il Quadrilatero torinese è una razionale rete di salotti eleganti, congiunti da larghi viali, dove lampioni candelabri emanano una luce soffusa.
Ogni cosa provoca un silenzio che imprigiona le piazze squadrate e spesso abbandonate. I pochi passanti paiono ospiti di un banchetto silenzioso, dove l’unica virtù richiesta è la capacità di essere discreti e taciturni. Forse il frutto di un nobile galateo antico, dove muta se ne sta la borghesia, per pudore o perché semplicemente non ha niente da dire. Non progetta e non si lamenta, non si dice fiera né si mostra vergognosa. Si lascia sedurre da grandi avvenimenti sportivi e culturali ma lo spirito cittadino non si lascia cambiare. L’unico moto che si concede è l’erezione di una nuova e stanca vittoria della Juve, che è un protocollo piuttosto che una conquista.
Dall’altra parte dello stivale, all’altezza della caviglia, abita un’aristocrazia nobile e decadente, figlia d’imperi e conquiste in continua contraddizione, appollaiata su una spirale di vicoli labirintici, che disperdono e trattengono un perenne senso di sconfitta. Ci hanno provato i borghesi a imitarli, costruendosi il loro mondo in collina per godersi la vista (dal Vomero e dai Colli Aminei), levigare la lingua e non farsi schiacciare dal magma contradditorio della città. Niente da fare, sono rimasti di fronte a un costante senso d’incompiutezza. Hanno abbandonato il ventre della città e ne hanno perso il cuore, restando così privi di direzione. Frustrati e allo stesso tempo affascinati da quel che non riescono ad afferrare, se non attraverso qualche occhiataccia antropologica rivolta ai loro fratelli popolari.
Alle pendici del Vesuvio la borghesia è logorroica e non potrebbe essere altrimenti. Parla e soprattutto si lamenta, sulla scia di un eterno senso di inferiorità rispetto al suo modello ideale: il civico rigore del Nord. Un gioco a perdere, così lontano dai modelli auspicati quanto dai vicoli dove continua ad aleggiare lo spirito di Partenope, sebbene insidiato da sorrisi e soldi dei turisti, pronti a trasformarlo in macchietta da stampare su una cartolina. Nonostante tutto, lo spirito di Napoli resta lì, nel ventre molle della città, nei vicoli stretti, dove la lingua si fa grassa e popolare in mezzo all’umidità marina, che non ha neanche il tempo di evaporare. Dove l’energia è soltanto energia e non ha senso alcuno, gira in tondo, spinge alla velocità di battuta, motorini e commerci. Tutto è così veloce da riportare ogni cosa sempre allo stesso punto. Tanto Napoli fa e disfa, seguendo per osmosi la risacca del mare, va e viene per restare in fondo sempre allo stesso punto, a due passi dal baratro dove la molecola della meraviglia incrocia l’assurdità di ogni equilibrio.
Perché essere operosi? La domanda implicita rimbalza dal Vesuvio alle Alpi. Cosa fare quando si è consapevoli che la visione del regno mai più tornerà? Eppure ci hanno provato e il movimento ha lasciato in dote sconfinati quartieri proletari, dove la costruzione industriale novecentesca si è tramutata in dormitori sfatti e statici. Generazioni figlie della Fiat abitano ancora palazzi che ricordano un’altra razionalità, quella sovietica. Fuori ai balconi l’occhio è colpito dalla strana abitudine di stendere delle lunghe tende, come a separare definitivamente il pubblico dal privato. Un imballaggio senza gusto, buono a distinguersi dall’inquinamento di sguardi e macchine. Tra quelle stesse mura si sceglie spesso la passione granata per non dimenticare l’antico Toro, un tempo nobile e vincente; e soprattutto per non dimenticare di aver comunque perso. Poca vita rimane in quelle vie, se non in quelle abitate dai proletari d’inizio millennio: gli immigrati assetati di vita e del suo connaturato disordine.
Alla fine la vera nobiltà cittadina resta inflitta e trascritta nei lineamenti delle rispettive geografie: da una parte la cornice alpina e la ferita acquifera del Po, uno specchio placido e innocuo che taglia in due la città, prima di concimare le terre realmente produttive del paese; dall’altra la sagoma del Vesuvio, appoggiata su una terra fertile, chiusa dal Golfo per scappare all’imprevedibilità dell’orizzonte. Una lamentosa e orgogliosa, sempre a metà strada tra Africa e Occidente, l’altra muta e superba, con le spalle volte alla Francia e il profilo alla pianura padana: Napoli e Torino, cadute per caso sullo stesso suolo.