L’Islamofobia, sappiamo, è un argomento troppo complesso per essere affrontato in un solo articolo. È sicuramente motivo di preoccupazione per le organizzazioni islamiche attive in Occidente, dove viene spesso fomentata per contrastare una religione/cultura/soggetto politico emergente.
L’Islam fa paura perché è una religione/cultura/soggetto politico forte, insoverchiabile ma, soprattutto, chiaramente strutturato, compiuto, nel momento in cui non trascura nessun aspetto della dimensione individuale e collettiva, spirituale e sociale. Chiunque parli di cambio di paradigma può guardare all’Islam come ad un’alternativa concreta all’attuale ordine sociale. Basti pensare alla sola regolamentazione della dimensione economica (all’antidoto coranico all’usura e all’usurocrazia) per realizzare quanto l’Islam possa essere davvero un fattore di trasformazione sociale a livello globale.
Naturalmente i musulmani non sono, a loro volta, esenti da problemi ma è anche evidente quanto sia diversificata la comunità islamica, quanto possano beneficiare del contributo di teorici — accademici e non — che propongono ai problemi della Ummah soluzioni diverse. Del resto un ampio dibattito, all’interno di qualunque comunità è — a parere di chi scrive — segno di “buona salute”.
L’Islam non è dunque quel soggetto monolitico che gli islamofobi vorrebbero presentare (impermeabile a ogni cambiamento, sessista, orientato allo scontro di civiltà) elaborando assiomi ed identificazioni di comodo. È piuttosto, chiaramente, pur a fronte di un buon livello di omogeneità su alcuni punti fondamentali, un soggetto plurale, basti pensare alla diversificazione delle sue scuole giuridiche e teologiche (in ambito sunnita e sciita) e all’eterogeneità della galassia Sufi.
La pluralità, tuttavia, è nemica degli schematismi ed una narrazione schematica è quella che, di volta in volta, viene implementata dai poteri — espliciti e/o occulti — per supportare il controllo sociale che questi tentano di detenere.
Dunque l’islamofobia. È un fenomeno che ha origini antiche, risalendo addirittura al tempo delle Crociate e che, agli inizi del terzo millennio, ha conosciuto un momento apicale dopo l’11 settembre (che ha ispirato molti degli assiomi cui accennavo in precedenza) e che ancora oggi ispira politiche dissennate, come la recentissima iniziativa di Joe Biden di distribuire la metà dei fondi dell’Afghanistan (7 miliardi di dollari, al momento ancora congelati), depositati alla Fed di New York, tra le famiglie delle vittime dell’attacco alle Torri Gemelle.
Il resto dovrebbe andare (bontà sua) al popolo afghano, sotto forma di aiuti umanitari, in un momento in cui il 98% di esso è a corto di cibo (non di inutili commodities; di pane, di riso, di ciò che è, semplicemente, indispensabile alla sopravvivenza umana). Il 60% degli afghani, — si legge su un articolo di Euronews — soffre già, gravemente, la fame.
Il Guardian definisce quello di Biden un convoluted plan: un piano contorto per aggirare una miriade di cavilli legali emersi dallo stesso 11 settembre e dalla fine caotica della guerra ventennale nel paese.
In altre parole, anche i 3 miliardi e mezzo che spetterebbero al popolo afghano, nel piano di Biden, seguiranno percorsi, appunto, convoluted mentre i poveri afghani continueranno a mancare dei beni primari.
La situazione in Afghanistan è talmente disperata che, scrivono ancora sul Guardian, persino alcune “vittime dell’11 settembre” rivendicano che la generalità dei fondi vada lì.
Ma torniamo all’islamofobia. È stata oggetto di un simposio, nel 2008, all’Università di Leeds, nel Regno Unito. Se ne stanno occupando costantemente sociologi come Chris Allen, dell’Università di Leicester, elogiato da Deutsche Welle (un’emittente pubblica tedesca, con servizi in diverse lingue tra cui l’inglese e l’arabo) come un grande esperto dell’argomento.
Si è espressa in merito all’islamofobia anche la European Commission against Racism and Intolerance (ECRI), associandola, in alcuni casi, alla violazione di diritti umani e l’antropologo italiano Gabriele Maranci l’associa alla “fobia del multiculturalismo e di una trasformazione dell’Occidente in una direzione concretamente transculturale”. Torniamo a quanto si affermava in precedenza, l’Islam fa paura, prima di tutto perché è un soggetto forte che può, effettivamente, portare dei cambiamenti (in un’Italia che produce un Festival di San Remo “liquido” come l’ultimo cui abbiamo avuto il piacere di assistere, posso capire che molti siano terrorizzati dalla solidità dei musulmani).
Dunque l’islamofobia. In Italia se ne sono occupati Enrico Galoppini in Islamofobia. Attori, tattiche, finalità, con post-fazione di Costanzo Preve che merita lettura: e la sociologa Monica Massari in Islamofobia; la paura e l’Islam , pubblicato dalla Laterza.
In italiano non c’è molto di più ma a chi fosse interessato all’argomento segnalo il seguente link.
Torniamo, dunque, in Inghilterra dove il Muslim Council of Britain sta portando avanti un’iniziativa cui merita, sicuramente, accennare.
Parliamo del Center for Media Monitoring, nato per promuovere una presentazione mediatica dell’Islam e dei musulmani che sia onesta e responsabile. Per fare questo il CfMM collabora costruttivamente con giornalisti presso quotidiani, periodici ed emittenti radiofoniche e televisive.
Il progetto ha anche un suo sito internet autonomo da quello di MCB, dove è comunque abbondantemente presentato.
Il team del CfMM è composto da 5 professionisti che hanno, in diversi casi, lavorato con i più importanti quotidiani del Regno Unito e con la BBC.
In poche parole, il CfMM setaccia tutto il materiale informativo possibile intervenendo presso le redazioni e le televisioni laddove ritiene vi siano elementi diffamatori o anche di semplice disinformazione in merito all’Islam in generale ed al mondo islamico britannico in particolare.
Sino ad oggi, il lavoro del Centro (attivo dal 2018) è stato molto efficace, ottenendo, in molti casi, rettifiche e scuse.
L’obiettivo è, naturalmente, ottenere nel tempo un’informazione più obiettiva e meno soggetta a pregiudizi. Al momento, tuttavia, le notizie non sono del tutto confortanti.
Il Centro ha elaborato un rapporto biennale (2018-2020) che possiamo tutti leggere. È stato realizzato dopo aver analizzato 48.000 articoli on line e 5500 servizi televisivi, nel Regno Unito.
Ebbene, stando a quanto si legge sul sito del Centro, circa il 60% degli articoli ed il 47% dei servizi televisivi associano i Musulmani e/o l’Islam a caratteristiche o comportamenti negativi.
Peggio ancora: un articolo su cinque si focalizza su tematiche come terrorismo ed estremismo.
Nel rapporto si entra anche nel merito di alcune differenze, ad esempio tra quotidiani nazionali e regionali, progressisti e conservatori, laici e religiosi. Chiunque volesse saperne di più può consultare il rapporto segnalato.
Merita menzionare che il rapporto è stato elogiato da alcuni giornalisti che sono stati contattati all’occorrenza, ad esempio Emma Tucker del Sunday Times ed Alison Philips del The Mirror.
Emma Tucker ha dichiarato: “accolgo con favore questo rapporto, perfettamente consapevole che contiene critiche alla stampa, il mio giornale incluso”.
Alison Philips ha dichiarato: “questo rapporto del Centre for Media Monitoring ci mostra quanto noi giornalisti ci dobbiamo interrogare in merito al lavoro che facciamo, informando sui musulmani e sull’Islam”.
Naturalmente il Centro è anche attivo nella diffusione di informazioni positive in merito al mondo islamico britannico. Per fare questo lavora anche in sinergia con le comunità musulmane di base, incoraggiando “buone pratiche”.
Il 9 luglio 2019, infine, la prima parte del rapporto 2018-2020 è stata presentata, ufficialmente, al Parlamento britannico. Aspettiamo ora il rapporto per il 2021.
Visitando il sito dell’organizzazione è naturalmente possibile fare delle segnalazioni in merito ad articoli e servizi diffamatori. Certo, il centro si occupa di informazione nel Regno Unito. In Italia spero vengano presto affinati strumenti simili per contrastare l’islamofobia.