Quando si fa realtà la guerra fa schifo, è un abominio così come ogni violenza. Due contendenti litigano. Uno invoca l’ombra del suo protettore, l’altro minaccia la forza. Si insultano. Tutt’intorno intervengono amici o semplici passanti a far da pacieri e fomentatori. Però che diamine, siamo pur sempre in una società civile! Non possiamo mica picchiarci o batterci a duello come fossimo nell’Ottocento.
Allora si decide di invocare un arbitro, un giudice terzo per trovare un compromesso. Ci sono Onu, Nato, i vari G (7-8-20…): tanti avvocati organizzati e sparsi per il mondo, che di sicuro sono terzi ma chissà quanto imparziali. Niente, la contesa continua, non c’è amministrazione o burocrazia che tenga. Normalmente uno si mette sulle spalle la ragione, l’altro il torto e gli affari della vita civile proseguono. Invece no, esiste ancora la possibilità di alzare le mani, di aggredire, di dominare l’avversario. È mai possibile? Allora si scatenano vigili, carabinieri e altri detentori dell’ordine per imporre generose multe all’aggressore.
Le sanzioni sono davvero una terribile dissuasione per chi ha scelto la via della forza…Ma stavolta la guerra è a due passi dall’Europa. La stessa Europa, terreno di ogni passato conflitto, è ora implicata, coinvolta, anche se non fa niente.
Il tutto avviene, per la precisione, nel tornello che unisce e separa l’Europa dall’Asia. È chiaro che dietro l’invasione russa dell’Ucraina ci siano ovvi motivi energetici, economici e geopolitici, che sono il motore concreto di qualunque conflitto. Così come c’è l’ombra dei due giganti (Usa e Cina) in latente conflitto imperiale, ma spesso si dimentica una cosa: si tratta in pratica di una guerra quasi civile, visto che sul territorio ucraino si parla soprattutto russo e una parte della popolazione è russa.
E si dimentica soprattutto che questo conflitto è figlio di uno scontro più profondo, antropologico e spirituale tra due mondi che, ad eccezione di soldi e libero mercato, non hanno nulla in comune e niente da dirsi. La visione dell’impero contro l’essenza della democrazia. Un conflitto erede dello scontro tra comunismo e capitalismo, che nonostante tutto, si muovevano su uno stesso terreno, seminato a proprietà, lavoro, denaro. Un terreno capovolto e lasciato freddo per anni.
L’Ucraina ha la sola maledetta sfortuna di trovarsi nel crocevia tra queste due entità. Da una parte c’è un paese che ha già perso un pezzo consistente del suo vecchio regno, che velocemente si è secolarizzato, ha iniziato a parlare inglese, a vivere nel mondo dell’Erasmus, degli scambi culturali ed economici europei. Tutte le vecchie repubbliche sovietiche, nel giro di trent’anni si sono occidentalizzate. Si prenda come esempio la profonda differenza antropologica e sociale tra Lituania e Bielorussia (ancora sotto influenza russa).
Perdere l’Ucraina, cioè la cerniera con l’Europa, significa abbandonare definitivamente la visione dell’impero e della lingua. Significa inoltre rischiare di aprire una ferita decisiva per la futura secolarizzazione della Russia. Putin vede e parla da un palco situato a cavallo tra Ottocento e Novecento: pretende continuità, esige conservazione. Ha la voce ferma, lo sguardo vitreo e imperscrutabile.
Di fronte a sé trova il regno della democrazia, che, ricordiamolo, è forma e mai sostanza. Ha più voci, nessuno sguardo e un unico movimento. Cosa significa? Che la democrazia ha poco da affermare o molto da difendere: la pace, il benessere, la multiculturalità, il progresso, la salute sono tutti valori, privati del loro controcanto naturale e perciò inoffensivi, vuoti. Il suo fine è la continua, infinita espansione formale, che si traduce in un semplice assioma: ognuno è libero di decidere cosa fare della propria vita, quale lingua parlare, quale moneta toccare, fino a poter scegliere il proprio genere sessuale. Bisogna avanzare, soltanto procedere e avanzare. Perciò la Democrazia non può tollerare che religione, visione imperiale e spirito di conservazione ostacolino il suo potere d’espansione formale.
È così che Russia e Occidente si trovano a parlare lingue distanti un secolo e non c’è mediazione che tenga. Anche la fisiognomica aiuta a capire la distanza. Prendete il volto del leader russo e di quello ucraino: di chi avreste paura? E va bene che in Italia abbiamo un debole per i comici politici, ma quelli sono buoni per i banchetti, non in trincea.
D’altronde la guerra nostrana è diventato un concetto così dolce e remoto. L’abbiamo sventrato e ne abbiamo attaccati molti pezzi alla malattia, alla vecchiaia e all’inciviltà, lasciando i soldati liberi d’impegnarsi in costanti missioni civili contro mafie, spazzatura e virus. Degli esemplari e gentili Vigili del Fuoco. Un concetto diventato così immateriale da sparire perfino dai giochi analogici dell’infanzia, fatti di soldatini e modelli d’arsenali bellici.
Nel frattempo, qualcuno invece ha continuato a coltivare il suo arsenale, ha educato le giovani generazioni alla battaglia e alla patria. Infine davanti a una disputa senza redenzione, l’ha scelta come il più antico tra gli strumenti per risolvere un problema.
Una cosa è certa comunque: prima camuffata nel lessico sanitario, poi frontale nella sua violenza visiva, la guerra è tornata e bisogna pur affrontarla.