Bifolco, commissario, esteta, attore fallito, marito paranoico, impresario senza scrupoli, pugile invecchiato, anarchico… Ugo Tognazzi non è stato semplicemente un attore. È stata una presenza, un corpo su cui si è delineata la geografia di un paese intero.
La sua camminata a piccoli passi e a culo stretto incarna lo stivale di un uomo raffinato, al confine con l’effeminato, che reca impresso un senso antico di aristocrazia. Tra le sue mani tozze si legge un carattere d’operaio e contadino, d’uno che dalla terra e dai macchinari ha appreso la lezione della fatica. Nella fronte alta e nella bocca vorace, pronta a divorare cibo, fumo e vita, si scolpisce l’insaziabilità del borghese.
Un sorriso spesso leggero, appena dischiuso, che pare farsi beffa dello spettatore, raggirarlo anche nei momenti di maggiore drammaticità. E quella voce gracchiante, a due passi dal rauco, che s’immerge nella profondità senza doverla mostrare, ostentare. È così che l’intero corpo di Tognazzi diventa maschera, perfettamente riconoscibile in ogni film, ma allo stesso tempo non smette mai di rinviare ad altro da sé. La sua maschera non si fissa mai nei confini della macchietta. È così che nella sua figura giace e s’incaglia lo spirito di un popolo. Così palese da restare inafferrabile.
Certo, bisogna fare i conti con il trentennio della meraviglia italica. Quel periodo in cui l’Italia è arrivata all’apice dell’arte popolare, proprio mentre gettava le basi per il futuro declino sociale e umano. Certo, più di tutto c’entra l’intero artigianato della commedia all’italiana. Un gruppo di registi, attori, sceneggiatori, circondati da un manipolo di abili artigiani, quali fotografi, montatori, compositori, costumisti…che hanno dato vita a un’immensa rappresentazione umana, consapevole che la vera commedia è logica della crudeltà.
Il talentuoso baraccone era già apparecchiato quando è arrivato Tognazzi. Lui che proveniva dal varietà e dalla comicità televisiva in coppia con Vianello, avrebbe dovuto fare un semplice giro sul grande schermo, intrattenere, suscitare qualche risata alla Walter Chiari, per poi con una giravolta tornare al linguaggio da cabaret.
Invece no, una volta arrivato sul set, non si è voltato più indietro. Perché a tutti è stato chiaro, fin dal primo momento, di non avere di fronte una semplice smorfia, una battuta riuscita, ma d’essere al cospetto dell’espressione unica di un uomo. Dal set al cinema d’autore fino al teatro, la sua strada finisce con l’incrociare i destini di altri attori monumentali, provenienti invece da un percorso più nobile. Mastroianni con la sua maschera languida da dongiovanni malinconico, lo sguardo di chi conosce la vanità di ogni possibilità. Sordi con addosso la vigliaccheria travestita da grandezza, da cui nasce il tragicomico destino di un perdente ingenuo e sbruffone. Manfredi, incastrato nel sorriso dolce e gentile di un autentico popolano che lotta invano contro i soprusi della nascente società del cemento e dei consumi. E infine dall’altra parte dell’antropologia Gassman, con la voce grave del potere, in fondo sempre mossa e retta dalle corde di un istrionismo depresso.
Immensi attori in grado di incarnare uno e più caratteri dello spirito italico, però così ben ritagliati, limati e definiti, da rischiare la rassicurazione. Perché quando li vedi uscire in scena già sai cosa aspettarti. Restano qualità, grandezza e comicità ma senza rottura e quindi senza stupore finisci col non metterti più in discussione. Con Ugo Tognazzi è una cosa diversa. Lui sa essere detestabile e amabile allo stesso tempo. Travestito da laido non ce la fai a condannarlo, così come da eroe non riesce mai a convincerti fino in fondo. Da fallito riesce a conservare nel fondo un tratto comico, così vicino a La tragedia di un uomo ridicolo; da vecchio attore comico è talmente struggente e lacrimevole che rende impossibile affermare: Io lo conoscevo bene!
Ma c’è un film più di tutti gli altri, un film girato dal suo mentore e amico, Marco Ferreri, un film in cui è affiancato da altri tre attori straordinari, che riesce a condensare il segno della sua parabola esistenziale e nazionale. È La grande abbuffata, la storia di quattro amici che decidono di suicidarsi mangiando. Arriva la sequenza in cui tocca a Ugo suicidarsi. A tal fine lui cucina il suo capolavoro: un paté in cui riesce a condensare e assimilare ogni sorta di carne.
A fine cena, si stende sul tavolo della cucina, continua a divorare il paté fino allo sfinimento, mentre l’amico (Philippe Noiret) gli tiene la mano e l’unica donna in casa gli dona la sua di mano per masturbarlo. Così piacere, fratellanza e morte convergono fino all’ultimo spasimo. L’ultimo soffio di un’epoca, la metafora di un destino collettivo da cui non ci siamo mai ripresi. Il culmine del boom, dell’emancipazione, dell’edonismo, dell’affarismo. Tra grazia e volgarità, dopo non c’è stato spazio che per un lento declino.