Dopo il mio ricovero in terapia intensiva ho rimandato più volte la risposta ad una domanda che mi è stata posta spesso e che non avrei potuto eludere per sempre. Quando questa domanda è scemata si è fatta spazio in me una riflessione sulla profonda esperienza che ho vissuto e la risposta mi è sembrata poi ovvia.
Se c’è stato un grande assente nella mia esperienza di ricovero per complicanze Covid, fin dal mio accesso al pronto soccorso, senz’ombra di dubbio si tratta della paura. Inizialmente mi preoccupavo solo della mia famiglia a casa in quarantena. Mia moglie e le mie figlie sono state il mio unico pensiero inquieto fino a quando ho creduto fosse giunta la mia ora ed ho detto al mio Signore: “sono felice di qualsiasi cosa Tu abbia deciso per me e sono sereno perché lascio la mia famiglia nelle Tue mani”. In quel momento l’apertura circolare sul soffitto del reparto, che emanava una luce azzurra e da cui vedevo salire e scendere entità che ho pensato fossero angeli, si è richiusa ed io non sono stato portato via. Realizzerò poco dopo che si trattava forse del trapasso di un altro paziente.
Un giorno di febbre, una polmonite asintomatica, poi l’embolia polmonare
Ho fatto direttamente il tampone molecolare prima di qualsiasi sintomo perché mentre stavo preparando la mia partenza per il periodo di Natale sono stato allertato da un contatto risultato positivo, era il 21 dicembre. Quella notte ho poi avuto la febbre alta e il giorno dopo ho ricevuto l’esito del tampone. A 48 ore di distanza stavo praticamente bene e solo nei giorni seguenti ho progressivamente perso il gusto e l’olfatto ed ho iniziato ad avere una febbricola che mai arrivava a 38. Il medico di base, sommerso dalle chiamate dei positivi della quarta ondata, mi ha prescritto l’Aulin (un antinfiammatorio).
La saturazione si manteneva su valori alti e forse la resistenza alla fatica di chi corre anche qualche maratona deve aver contribuito a darmi la percezione di non avere nulla di ché. Con ogni probabilità questo è ciò che devo aver trasmesso al mio medico. Qui però si evince il buco nero procedurale che ancora persiste dopo oltre 2 anni di scienza a reti unificate: il protocollo “tachipirina e vigilante attesa”, attesa che non accada il peggio, attesa fatta di telefonate e messaggi WhatsApp al proprio medico e di prescrizioni che ti portano a pensare “ma non avevano detto che non si tratta di una semplice influenza?”.
Una diagnosi fatta in tempo utile è auspicabile per qualsiasi cosa di cui ci si ammali ed anche la fantomatica terapia con gli anticorpi monoclonali andrebbe iniziata durante i primi giorni.
Ma se essere visitato per tempo (anzi se proprio l’essere visitato) dipende dalla regione in cui abiti o dall’organizzazione della tua Asl, quando non da un singolo medico o dal tuo ceto sociale, allora di cosa stiamo parlando?
Per quello che al momento consideriamo il flagello del 21° secolo abbiamo puntato tutto sulla speranza che non ti prenda troppo male. Tanta scienza e poi se sei positivo entri nel circolo “io speriamo che me la cavo”.
In realtà dietro quella poca febbre c’era una polmonite, di una certa entità anche se non diagnosticabile a telefono, ma l’ho saputo solo in ospedale quando era già in fase calante. Per circa 10 giorni non ho avuto neanche la tosse, poi ad un certo punto la febbricola si è fatta sentire per più ore e siamo passati all’indicazione di due bustine al giorno di Aulin. Quando la saturazione è scesa sotto il livello di guardia il medico mi ha prescritto lo Zitromax (un antibiotico) però, essendo trascorse ormai due settimane, mi ha suggerito il ricovero: “le faccio la richiesta di ricovero urgente e le consiglio di farsi accompagnare allo Spallanzani”.
Passare così, tutto d’un tratto, dalla vigilante attesa al ricovero d’urgenza non mi era parsa un’indicazione da seguire: “mi prescriva cortesemente l’antibiotico, poi ci penso per il ricovero”. Era il tardo pomeriggio del 4 gennaio, ho fatto un paio di telefonate di consulto ed avevo un affanno che non ho mai avuto neanche quando a volte ho quasi “collassato” durante una maratona. Questo mi ha fatto realizzare che la cosa era “improvvisamene” diventata molto grave quindi in serata mi sono presentato al pronto soccorso. Il medico mi ha chiamato il giorno seguente per sapere come stessi ma gli ho dovuto rispondere via chat perché ero col casco ventilatorio e gli ho fatto sapere che stavano per portarmi in terapia intensiva. Quando ci siamo riparlati di persona lui si è ricordato che avevo chiuso il messaggio con “sono fiducioso, quando esco ci prendiamo un caffè”, gli era rimasta impressa questa cosa. Non si può mai valutare chi sta dall’altra parte soltanto da ciò che si legge ma lui aveva percepito dai messaggi la mia condizione mentale reale, una condizione di calma e fiducia.
Prepariamoci al peggio, ci vorrebbe un miracolo
Durante il primo giorno di ricovero, mentre mi tenevano col casco e a pancia in giù, mi si avvicinò una persona conciata da marziano come tutto il resto del personale: “sono il rianimatore, mi sente?”, “certo che la sento, come mai sto facendo la sua conoscenza?”, “mi hanno chiamato i colleghi di questo reparto per valutare un suo passaggio in terapia intensiva”, “qualcosa mi diceva che non era qui per caso, buona valutazione allora”, “vedo che di spirito sta bene, non è un parametro che prenderemo in considerazione ma è una buona cosa”, “sono contento”.
La TAC fatta la notte prima aveva evidenziato una “bella” embolia polmonare massiva bilaterale, oltre alla polmonite.
La posizione a pancia in giù era un tentativo di “smuovere” l’embolo. Fortunatamente almeno l’ecocardiogramma sembrava quello di una persona senza alcuna situazione grave in corso. Non so quanto abbia influito il fatto che negli ultimi quattro anni il mio cuore fosse allenato a sostenere lungi sforzi fisici ma era forse l’organo che stava meglio. Ed è stata l’unica nota positiva della telefonata che hanno fatto a mia moglie per avvisarla del mio passaggio in rianimazione: “signora prepariamoci anche al peggio, chi va in terapia intensiva il più delle volte non torna però c’è da dire che il cuore non ha subito alcun danno ed è una cosa buona”.
La seconda mattina che vedo entrare la luce dell’alba in terapia intensiva è di venerdì che per noi musulmani è un po’ come la domenica per i cristiani. Avevo saputo che l’esame emo-gas che mi facevano in continuazione aveva iniziato a dare valori che denotavano un miglioramento più che una stabilizzazione delle mie condizioni ed ho pensato che altre preghiere, oltre alle mie, avrebbero potuto massimizzare la cosa. Avevo davanti agli occhi la mia comunità religiosa che essendo venerdì si sarebbe recata numerosa in moschea. Così iniziai a scrivere alle persone a me più vicine ed agli imam che conosco per far loro sapere che ero in ospedale e per chiedere di invocare la grazia del Signore su di me. Qualcuno lo ha fatto pubblicamente al momento della preghiera congregazionale e dai messaggi che iniziai a ricevere nel pomeriggio capii che le preghiere per me si stavano moltiplicando, anche tra non musulmani. Al momento del ricovero il valore pO2 era pericolosamente pari a 47 e per 2 giorni non mi riprendevo nonostante l’Eparina in somministrazione continua, l’ossigeno ed altro ancora. Ma quel venerdì su di me era scesa una benedizione ed i cosiddetti “scambi respiratori” miglioravano sempre più.
Il sabato mattina il medico di turno mi chiese se mi ricordassi di lui, “sono il medico che le ha cambiato il modello di casco giovedì” (come estrema ratio prima di intubarmi), “senza offesa dottore, siete tutti mascherati allo stesso modo e non potrei riconoscerla”, “le sue condizioni hanno avuto un cambio di rotta poco prima del breakpoint (…) stiamo parlando da alcuni minuti e lei non desatura signor Tieri” (mi diceva guardando il computer alle mie spalle), “grazie a Dio, riesco anche a parlare senza fatica” (e dovevo anche un po’ urlare perché avevo il casco), “mi dica una cosa, lei non ha mai fumato vero?”, “no (…) faccio anche qualche maratona”, “sono tutte cose che sicuramente stanno contribuendo ma nel complesso non è che possono spiegare quello che è accaduto”.
Infatti, non si può attribuire l’improvvisa ripresa che mi stava raccontando ad una mia capacità fisica che non era stata sufficiente a reagire bene al Covid prima del ricovero. In reparto arrivavano pazienti di continuo, molti non vaccinati ma non solo, tempo massimo due giorni e venivano tutti intubati. Non ho visto nessuno risvegliarsi ma solo qualche estrema unzione ed un certo numero di persone andare via nel “sacco”. Cosa era successo nel mio caso?
Ad un certo punto della discussione il medico mi disse “domani proverei a toglierle il casco”, “magari, inizia a stufarmi”. E così fu. La domen
ica mattina me lo tolsero e quando mi fu proposto di rimetterlo per la notte non è che mi sono opposto ma ho detto loro: “se la precauzione è per le ore in cui dormo io continuerò a non chiudere occhio”, ed effettivamente non ho quasi dormito per una settimana, ma non per il casco.
I miracoli del venerdì
Dopo alcuni giorni di continuo miglioramento, su un totale di 7 giorni ed 8 notti in terapia intensiva quasi sempre sveglio, vengo rispedito nel reparto sub intensivo (di pneumologia covid) dove ero stato solo di passaggio durante il primo giorno di ricovero. Il mattino seguente, il secondo venerdì, in turno c’era la dottoressa che aveva avvisato mia moglie di prepararsi anche al peggio.
Entrò in stanza dicendo “dov’è il miracolato?”.
Mentre leggeva la cartella clinica mi disse “secondo me le ha salvato la vita questo secondo anticoagulante che le hanno somministrato in aggiunta all’Eparina”, “grazie a Dio che me l’hanno dato allora, neanche lo sapevo”. Avrei voluto aggiungere che forse era stato anche il venerdì, che per noi musulmani inizia dal tramonto del giovedì e che al mattino il pO2 già migliorava, poi le preghiere e tutto il resto, ma mi sono fatto bastare l’appellativo di MIRACOLATO.
Quel venerdì nel reparto sub intensivo mi successero tante piccole e grandi cose e, tra queste, mi tolsero il catetere! Non scendere mai dal letto neanche per andare in bagno, in soli 9 giorni, mi aveva dimezzato il volume delle gambe ma ero finalmente “libero”. Ho trascorso una settimana a pregare intensamente e a ripetere spesso gli esercizi di riabilitazione polmonare e muscolare che mi venivano progressivamente insegnati. Al di là delle più rosee aspettative il venerdì seguente, cioè il terzo venerdì di ricovero, dopo 16 giorni e 17 notti di ospedalizzazione sono andato via con le mie gambe, con due zaini sulle spalle, ed ho aspettato al bar l’arrivo di mia moglie a cui avevo appositamente dato un orario che mi consentisse di muovere da solo i primi passi fuori dall’ospedale e di prendere un caffè.
All’alba del terzo venerdì avevo fatto un sogno diabolico nel quale avevo respinto alcune tentazioni e mi svegliai con la certezza di essere nel bel mezzo di una prova. Dopo la colazione mi misi a leggere un capitolo del Corano che si è soliti leggere il venerdì mattina, la Sura al-Kahf. Dopo il prelievo la dottoressa andò ad analizzare il sangue ed io rimasi fiducioso in attesa del responso. Il valore minimo del pO2 per essere dimesso avrebbe dovuto essere 85 ed il volto della dottoressa quando tornò in stanza anticipava le sue parole: “Il pO2 è 98, il tempo di prepararle i documenti e può uscire”. Erano tutti contenti per me, così come lo era stato tutto il personale in terapia intensiva quando ci siamo salutati. Quest’ultimi sono costantemente in guerra anche se perdono quasi tutte le battaglie. Per qualcuno di loro io ho rappresentato una vittoria e sono onorato di questa cosa, oltre a sentirmi un privilegiato per la grazia ricevuta.
Dopo quello che ti è capitato ancora non cambi idea?
Nel libro Covidismo 2.0 viene fatta un’analisi dell’adesione al pensiero unico scientista che si è avuta in questi ultimi due anni e viene evidenziato come questa adesione sia stata sostanzialmente un atto di fede da parte di un’umanità quasi dimentica di Dio oltre che mediamente poco istruita in fatto di scienza (il sottoscritto è una persona religiosa che ha fatto ingegneria, non scuola di magia). La folgorazione sulla via di Damasco è avvenuta un po’ per tutti con lo stesso meccanismo: la paura che prende il sopravvento. In questa dinamica ci sono stati anche attori che a mio avviso hanno agito in modo dannoso, alimentando la paura e prendendo decisioni che reputo scellerate.
Il prof. Frajese, in una recente intervista in cui ha descritto i passi alla cieca fatti dalla comunità scientifica per realizzare i vaccini a mRNA, nell’esprimersi sulle scelte dei governi ha parlato dell’effetto nocebo, il contrario dell’effetto placebo, quello cioè dovuto alla percezione catastrofica di un agente nocivo sopravvalutato. Io aggiungerei che per qualcuno con potere decisionale si possa parlare di dinamiche meno decorose dell’effetto nocebo.
I governanti ed i governati sono gli uni lo specchio degli altri ma non sono la stessa cosa, non abbiamo tutti le stesse responsabilità e le stesse colpe. Aver deciso di investire tutto in vaccini che arrivano tendenzialmente tardi rispetto alle varianti, aver scartato ogni ipotesi di investimento nella seria ricerca di una cura da somministrare a chi ne abbia realmente bisogno, essere arrivati comunque alla quarta ondata con risultati che non differenziano tantissimo l’Europa vaccinata dall’Africa non vaccinata, tutto questo ci lascia ora in mezzo alla tempesta e qualcuno dovrebbe pagare per questo.
Durante la quarta ondata l’efficacia dei vaccini nel proteggere dalle complicanze è stata statisticamente rilevante, soprattutto per chi aveva fatto la seconda o terza dose non dà molto. Ma se poi fosse arrivata una successiva ondata importante con una nuova variante? E a settembre cosa faremo? Laddove è stata sperimentata la quarta dose si è iniziato a vedere che il giochino dei richiami ravvicinati non può durare all’infinito ma il Covid non è stato debellato, probabilmente resterà con noi per sempre e non sappiamo se nel prossimo autunno ci sarà una recrudescenza con nuove varianti aggressive.
Siamo proprio sicuri che chi si è già vaccinato 3-4 volte non potrebbe dover puntare tutto sulla tessera onoraria del circolo “io speriamo che me la cavo”? Se si fa mente locale possiamo ricordare che un anno fa non si parlava affatto di una terza dose da fare a stretto giro ed ora siamo già alla quarta. Per il vaccino della Johnson (una dose anziché due) si parlava di “dose unica”. Ricordiamoci anche che avevamo ben quattro “vaccini sicuri” poi i due a vettore virale sono scomparsi dalla circolazione e per la terza dose ci è stato detto che cambiare marca e tipologia di vaccino (visto che restavano solo quelli a mRNA) non è affatto pericoloso ma addirittura conveniente.
La scorsa estate venivano fatti gli open day in discoteca per vaccinare i giovani a cui veniva offerta anche una consumazione e poi si è visto che il vaccino AstraZeneca in quella fascia d’età era da evitare. Per non parlare del fatto che prima o poi dovremmo dircelo che nei prossimi 10-20 anni raccoglieremo i dati della sperimentazione di massa effettuata con vaccini-incognita, per un virus estremamente contagioso ma dal quale già 2 anni fa i più guarivano in modo spontaneo. Perché per contrastare un virus a nessuno è sembrato logico puntare su un farmaco antivirale? Si è deciso invece di lanciare i dadi sui possibili effetti collaterali di medio-lungo periodo che questi nuovi vaccini possono comportare, già sapendo che comunque non sarebbe stato possibile vaccinare tutto il mondo, da subito tutto raggiunto dal virus, e potendo da sempre ipotizzare che l’investimento vaccinale non avrebbe debellato il Covid. Che strategia è mai questa? Chi l’ha decisa? A chi è convenuto adottarla?
A maggior ragione oggi, più che uno o due anni fa, non intravedo ragioni per cambiare il mio severo giudizio sull’operato di chi ha effettuato certe scelte durante questa pandemia. Non ultima la scelta di dare massima libertà ai vaccinati che comunque sono stati il veicolo di contagio principale durante la quarta ondata. Personalmente, nella valutazione costi-benefici, tornando indietro e sapendo già come va a finire, senza la certezza “assoluta” che il vaccino mi eviterebbe la terapia intensiva, ripeterei la scelta di non vaccinarmi. Di sicuro non lo farei con un vaccino che gioca col mio DNA. Alla mia età e senza patologie pregresse a me note non era affatto probabile che mi ammalassi nel modo in cui mi sono ammalato di Covid, ma è successo: ma sha Allah (così ha voluto Dio). Era comunque anche improbabile che sopravvivessi all’embolia. Un amico medico che aveva letto il referto della TAC fatta al momento del ricovero è stato male per alcuni giorni, per la gravità della cosa, finché non ha saputo che mi avevano tolto il casco e non per intubarmi: shukran Allah (grazie a Dio).
L’essere umano è chiamato a compiere continuamente delle scelte, in scienza e coscienza, assumendosene la responsabilità e senza poi lamentarsi delle conseguenze. Le persone che hanno una fede sostengono che non siamo realmente noi a prendere decisioni e cioè che nell’esercizio del libero arbitrio, in ultima analisi, non decidiamo realmente nulla ma dobbiamo comunque avere il coraggio di fare le nostre scelte. Non si tratta quindi di fatalismo ma è innegabile che la fede, pur non garantendo di compiere sempre la scelta migliore, conferisce un certo livello di serenità e di coraggio anche in situazioni inedite e difficili.
Se invece si prendono decisioni sotto l’effetto prolungato della paura, al quale si è aggiunto il ricatto del green pass, possiamo anche chiamarla scienza ma si tratta in realtà di una delega in bianco data spesso a meccanismi palesemente opachi. All’opposto si colloca invece l’incoscienza di chi ha cercato il contagio per ottenere il super green pass da guarigione, ma questo è soltanto un altro modo di lanciare i dadi.