Cerimonia di cartapesta. Un comico parla come se masticasse chewing-gum. Tutti gli altri ascoltano o ridono come se masticassero chewing-gum. In una profonda atmosfera mascellare, un attore si alza dal suo posto, avanza con passo da gangster. Lento, sicuro si avvicina al palco. Si mette in posizione, non proferisce parola, poi si coordina alla perfezione per rifilargli un pugno o uno schiaffo in faccia.
La cosa non è chiara, fatto sta che il comico si è reso colpevole di una battuta volgare sulla moglie dell’altro. In sala le mascelle non ridono più, si fanno preoccupate, cupe ma in fondo restano identiche. L’attore si volta di colpo e torna a sedersi con sguardo di fierezza. Finalmente un momento di autenticità. Una scena ottocentesca!
Il problema è che l’atto non pare rompere con la messa in scena generale. Sono in molti a essere perplessi. Si ha la sensazione di una gag pubblicitaria preparata a tavolino. Non si capisce che la questione è all’origine: all’interno della messa in scena non esiste differenza tra realtà e finzione. Impossibile capirlo perché la migliore interpretazione di molti tra quegli attori è condensata intorno al loro stesso nome. È quello il loro vero capolavoro pop.
Sulla scia del dibattito si schierano pacifisti, moralisti, femministe, machi e forse anche macachi digitali. Tutti un po’ tristi perché rimpiangono la vera occasione perduta. Sarebbe stato il vero colpo di genio di questa nostra pop art quotidiana: l’attesa apparizione di Zelenski alla notte degli Oscar. Guerra, Oscar, eroi, attori, Hollywood, Casa Bianca, bicipiti e retorica. La sublimazione perfetta. Quanti rimpianti! Magari Zelenski sarebbe intervenuto poco dopo la scena dello schiaffo.
Uno spettacolo! Avrebbe fatto una bella ramanzina al buon Will Smith sul valore della pace, dell’onore e della diplomazia. Tutti a spellarsi le mani e le mascelle tornate finalmente serene, sperando soltanto di non sentire emergere dalle quinte la voce critica di qualche fanatico del Black Lives Matter… Nel frattempo Gramellini, forte della sua prosa immortale, non avrebbe perso tempo e ci avrebbe di sicuro donato un nuovo Guerra e pace, facendo rinascere il romanzo nostrano.
Ospedale di Milano. Un giovane uomo di successo è ricoverato per lottare contro il vero e infame male di questo tempo. L’uomo documenta fedelmente da anni, insieme alla compagna, ogni passo quotidiano. Milioni di dita oculari seguono con rigore e passione le loro trame finché non irrompe la malattia. Ecco arrivare puntuali selfie e video dall’ospedale, prima e subito dopo l’intervento chirurgico. Questa volta qualcuno storce il naso e s’interroga su quale sia il limite del pudore e del buon gusto.
Insomma, dove è giusto interrompere la messa in scena? A pochi passi dalla morte? Mai, è questa l’amara verità. Perché non esiste altra possibilità: una volta apparecchiata, la scena non può essere smantellata. Questa è la grammatica digitale. Semmai salta agli occhi che un unico ambiente sia ancora capace di resistere alla scena: il letto nuziale. Ormai è chiaro: il dolore non è tabù, la sua spettacolarizzazione è anzi divenuta virtù; la morte è accettabile soltanto come omaggio o numero, come violenza è ancora tabù; intanto il sesso è l’unico vero, vecchio tabù che ancora resiste e non a caso la pornografia fa breccia nei cuori di giovani e vecchi amanti del digitale.
D’altronde, cosa poter rinfacciare a Fedez? Lui che incarna semplicemente il sogno dell’uomo contemporaneo: essere guardato e approvato dalla comunità virtuale, là dove abitano uomini e donne, che qualche decennio fa fuggivano la provincia, schiacciati dal peso dell’osservazione e del giudizio collettivo. Questo il piccolo paradosso. Invece il vero scandalo etico potrà affiorare soltanto nella coscienza dei figli messi in scena.
I genitori hanno scelto (per quanto si possa scegliere…) di rappresentarsi, mentre il destino dei loro bambini dalla nascita in poi somiglia molto alla parabola compiuta dal protagonista di The Truman show; strana sorte di un film che voleva essere metafora di un certo tipo di televisione, che invece è diventato profezia della comunicazione digitale. Ma se tutto torna e va come dove andare, dormano pure sogni tranquilli i genitori, che l’obiezione di coscienza non dovrebbe emergere.
È chiaro, il problema non sono W. Smith, Fedez e tutte le altre comparse virali (che sono marionette e burattinai allo stesso tempo). Il problema siamo noi, il pubblico, che guarda, commenta e si convince di comunicare.