Prima due anni di pandemia e ora 118 – come le voci e le firme del mainstream ci ricordano immantinente – giorni di guerra, e il linguaggio è stato una delle vittime tragicamente abusate dalla regia di controllo della propaganda.
Strumentalizzato con violenza per pilotare il consenso pubblico, reinventato con neologismi ad hoc per creare la realtà olografica da proiettare agli spettatori, abbiamo assistito alla transizione del tutto innaturale del nostro patrimonio linguistico, da un prima a un dopo. Il linguaggio ha un potere. E’ innegabile, lo sperimentiamo in ogni istante della nostra esistenza. Sia sul piano della negoziazione mondana che sul piano metafisico e spirituale.
Ho chiesto a Pietrangelo Buttafuoco di provare a capire con noi cosa è avvenuto al nostro patrimonio linguistico e al suo naturale modificarsi, a lui, per una risposta, per me ancora viva, che lui diede a Gad Lerner, padrone di casa di un talk show televisivo in una puntata sull’annosa questione della prostituzione, sul “corpo in vendita”, Buttafuoco rispose, in un parterre esclusivamente di giornalisti:“la cosa davvero grave è che il linguaggio possa essere messo in vendita.”
Voglio chiederti se non credi che chi, aduso allo strumento e nella posizione privilegiata di parlare a un pubblico, intendo specialmente i giornalisti, abbia una forte responsabilità su come è stato rottamato e anche sulla velocità innaturale con cui è stato modificato, in barba a tutti i saggi di linguistica generale che De Saussure avrebbe ancora potuto scrivere?
Io non credo che ci sia qualcuno che possa decidere il linguaggio a partire da oggi, domani o dopodomani, per come sarà. Tanto meno i giornalisti.
Il giornalismo è soltanto una piccola parte di quello che poi il linguaggio nel suo dispiegarsi, impegna e coinvolge tutto e tutti.
Siamo in una fase particolare perché veniamo fuori da due anni di pandemia, adesso l’impatto della guerra in Ucraina ha determinato dei cambiamenti. Però attenzione, è qualcosa che riguarda soltanto quella parte di mondo che è interessata all’argomento, perché nel frattempo succedono tante altre cose e tutti gli altri che sono fuori da questa sfera, da questa apnea fatta di bla bla, non se ne accorgono nemmeno, non hanno la consapevolezza di quello che stiamo vivendo noi.
Non c’è dubbio che il linguaggio coinvolga e compenetri di sé qualunque gesto, qualunque azione sociale, qualunque manifestazione di volontà e perfino il precipitato stesso del reale, però dobbiamo essere consapevoli di quello che è la relatività della posizione geografica di cui siamo coinvolti e interessati. Cioè nel frattempo che c’è la guerra in Ucraina, ce ne sono state tantissime di cui nessuno di noi ha avuto notizia, e informazione, né tantomeno è stata accesa un’emozione tale per cui ti senti coinvolto.
Una volta dicevamo la storia la scrivono i vincitori, adesso diciamo la storia la scrivono gli sceneggiatori.
E la guerra come pólemos, come dato concreto del precipitato nel reale, adesso la puoi raccontare e vivere attraverso le emozioni, tant’è che von Clausewitz, oggi, il saggio di analisi scientifica sulla guerra, lo potrebbe fare con un solo titolo possibile: La guerra come sceneggiatura
Non a caso, oggi, è diventato d’uso comune definire l’informazione come narrativa. Espressione che fino a pochissimo tempo fa, riferita all’informazione aveva un’accezione totalmente dispregiativa. Dettaglio sfuggito anche a quelli attenti che, tuttavia, ne definiscono perfino la propria ricerca. Fa riflettere quanto passino sottogamba le insidie di questo genere di shift.
É una dimensione inedita quella che viviamo, siamo stati coinvolti negli anni della pandemia – e quello della pandemia è solo un “torno subito”, prima o poi farà capolino ancora una volta e si ricomincerà – che ha portato a un mutamento antropologico, anche nei comportamenti, negli atteggiamenti, per cui imponi nella società un discrimine ben preciso, non più tra ricchi e poveri, tra classi sociali, ma tra coloro i quali sono inquadrati secondo il dettato e altri invece che tentano una via di fuga.
La via di fuga viene risolta sempre, sia essa pandemia, sia guerra, sia esso pensiero unico, non attraverso il riconoscimento del dissenso, al contrario, attraverso due possibilità, o la ridicolizzazione o la criminalizzazione.
Il linguaggio ha una parte fondamentale in tutto questo processo, perché dobbiamo considerare anche che quelli che sono frettolosamente considerati i passaggi della cancel culture intervengono sul linguaggio perché il linguaggio ha una connotazione ben precisa e una scelta di campo, abbiamo visto in ambiti quali possono essere quelli del rapporto tra i generi, la garanzia delle minoranze, ma tutte destinate a un ambito che è quello del diritto individuale, mai più si va a indagare, a riflettere, su quelli che possono essere i riscatti sociali, sui problemi del lavoro, ma solo sui diritti individuali, laddove il desiderio diventa un diritto. E il linguaggio in questo diventa fondamentale per cambiare e mutare le reazioni i comportamenti e quindi va a strutturare un nuovo imperio, un nuovo comandamento. Gli esempi della cancel culture sono quelli che hanno portato a poco a poco a renderti consapevole delle cose. Ormai è facile che nel mondo del lavoro ci sia uno scambio di mail, di contatti, di relazioni in cui vedi far capolino l’asterisco. Perché la popolazione attiva al di sotto dei trent’anni, ormai la sente con ovvietà questa necessità di uniformarsi. E di adeguarsi. Il passaggio è inesorabile.
Io me la cavo spesso appoggiandomi a quello che mi dice un carissimo amico iraniano: la differenza fondamentale fra noi e voi è che noi abbiamo la censura, e la censura la puoi aggirare, voi avete i tabù, e i tabù sono inaggirabili. E nel tabù si compendia e si completa la geometrica risoluzione spietata del linguaggio.
Un tema su cui riflettere, sembra banale dirlo perché è un’esercitazione scolastica, però necessaria, è la riflessione sul linguaggio che ancora una volta ci riporta a Martin Heidegger, perché lì c’è il passaggio chiave attraverso cui noi abbiamo la consapevolezza della natura profondamente umana, e quindi contemporaneamente spirituale, della lingua, della parola. Il linguaggio ci permea, ci forgia.
Stai illustrando il desiderio, il bisogno, variegato sfaccettato, la brama di aderire a un dettato vissuto soprattutto dalla parte passiva che ascolta. Ma noi abbiamo assistito, allibiti, specialmente in questi due anni, a un totale asservimento alla linea ufficiale dalla gran parte di quelli che sono nella posizione privilegiata di parlare a un pubblico. E di impallinarlo fino al condizionamento, di chi devi avere compassione, chi devi amare, chi devi accogliere, per chi ti devi emozionare.
Ripeto, io non so immaginare se ci sia un’abilità speciale, o una regia , o un meccanismo, molto spesso, sai, è anche la codardia di ognuno di noi nel non voler controbattere e ci siamo adeguati immediatamente su cose che sembravano risibili, ma che invece sono diventate sempre più dei meccanismi che ci chiudono.
Però dobbiamo sempre immaginare quale può essere la possibilità di resistere
Torniamo al linguaggio secondo i canoni della grande tradizione teatrale, il linguaggio di dissenso, di disobbedienza, quindi un linguaggio di libertà, o un linguaggio che forgia la tua esistenza a un modello alto. E’ la famosa tirata del Cirano de Bergerac, “Grazie no”, in cui fa tutto un elenco di cose che ti assicurano la vita tranquilla, ti assicurano la serena e pacifica destinazione a una vita quotidiana , e “grazie no”, invece è la risposta educata che però ti forgia nella disobbedienza .
Ecco, tutte queste cose non accadono più, però in ambito ben preciso, che è il nostro ambito. Riflettiamoci, non è mai esistita nella storia della cultura europea, o in senso lato occidentale, che gli artisti diventassero i primi scherami della grande fureria. Però ormai ci siamo abituati al fatto che i nomi rinsaldati dello scenario artistico e intellettuale, invece di coltivare uno spirito di disobbedienza, eversivo, di sovversione, di distanza, adesso stanno col ditino puntato a dirti comportati bene. Lì, dal mio punto di vista, è sopravvenuta anche una cosa spaventosa, che è questo sopravanzare dell’etica. Perché l’etica a cui fanno riferimento è ovviamente l’etica kantiana (1), quindi ovviamente questo sforzo di raddrizzare le gambe ai cani, di aggiustare il legno storto dell’umanità, quindi di uniformare tutto a discapito del bel gesto, dell’estetica del “grazie no” di Cirano de Bergerac, che viene cancellata dall’imposizione del devi-devi-devi. Il devi secondo le norme e le regole di una società ideale che vogliono realizzare in terra.
Noi sappiamo che tutti i tentativi di costruire il paradiso in terra si catapultano, si ribaltano in un rispettabile inferno.
Voglio anche spingerti su un altro terreno, quello del reale potere creativo del linguaggio. Il verbo di Dio che nominando, crea.
Ovviamente c’è l’inaspettato nella storia, l’imponderabile, il dato umano troppo umano che ribalta l’attesa messianica che l’etica si propone di stabilire, di dispiegare nel corso dell’umanità. Il caso smentito di Fukuyama (2). La storia non finisce. Anche i fatti recenti dimostrano come la globalizzazione abbia trovato un inciampo, possibilmente non sarà il dollaro il parametro generale di tutto perché magari questa guerra costringe a un disegno, destina a un nuovo ordine mondiale.
Il dato spirituale, il dato religioso, credo debba essere argomentato su due piani, uno quello terreno e uno quello trascendente, metafisico.
Dal punto di vista spirituale, non c’è dubbio che se la religione rispetta l’etimo stesso della parola latina, è un religio, ciò che lega insieme le cose. È parte fondamentale di destini individuali, ma anche collettivi, tanto è vero che perfino questa guerra che noi abbiamo raccontato, che ci raccontano giorno dopo giorno, ora dopo ora, istante dopo istante, ha anche un aspetto religioso. Che ovviamente non viene considerato nella sua totalità, ma che ha dei risvolti ovvi, sia nelle figure, sia nei capi spirituali che intervengono, sia anche in quelle che sono poi le segnalazioni sul campo di battaglia. Perfino i cappellani militari di fede ortodossa, di fede lamaista tibetana, di fede islamica, di fede giudaica, sono tutti coinvolti nell’uno e nell’altro esercito.
Nel caso particolare, è strano, credo non si sia mai visto, che due eserciti che si fronteggiano sono generati da un’unica scuola militare, molto spesso si sono formati alla stessa accademia. E lì c’è una forte componente di religio, cioè di religione che li tiene insieme ed è, credo, un caso unico su cui indagare e studiare, una guerra in cui si fronteggiano due eserciti al cui interno albergano diverse confessioni religiose.
Altro tema è invece quello trascendente, metafisico. Ci si aspettava che l’apparizione dell’anno 2000 e quindi del nuovo millennio, avesse cancellato l’impronta metafisico trascendente nell’orizzonte dell’umano. Questo non è avvenuto per tutta una serie di cose. Se noi stessimo ancora a leggere le pagine di Hegel su La Filosofia della Storia e ci soffermassimo su quello che lui frettolosamente chiude in 4 paginette , se non ricordo male, dedicate all’Islam, la considerava già una superstizione usaurita. E noi siamo invece nel primo ventennio del 2000 e sono tante le nazione che si sono informate alla presenza e all’impronta dell’Islam. Allo stesso modo, nel nuovo ordine mondiale, l’India è pur sempre una potenza nucleare e una nazione che ha informato di sé il paganesimo vero, cioè vanno al tempio a fare la pūjā, ecc.
Allo stesso modo la Cina, pur essendo la Repubblica Popolare Cinese a tutti gli effetti la struttura politica che fa riferimento al partito unico, un partito che fonda la sua identità sul materialismo scientifico e sull’ateismo di Stato, tutto è tranne che una società atea, che invece fa riferimento a una tradizione e a un‘identità millenaria ben precisa.
Il nuovo ordine mondiale deve quindi fronteggiare una parte di mondo che ha esaurito la sua identità religiosa, anzi ha sposato nella secolarizzazione il laicismo, l’ateismo e forme attraverso le quali l’idea di considerare la possibilità di un’esistenza oltre quella terrena sia da valutare e liquidare tra le sciocchezze.
Mentre invece c’è l’altra parte di mondo che ancora ha un preciso radicamento. Ma la novità vera quale è? E’ che per la prima volta non si fronteggia una società tecnologicamente evoluta contro una tecnologicamente non evoluta, ma si fronteggiano due diversi modi di concepire il mondo, quanto meno pari, anzi forse già la gara è abbastanza squilibrata, se consideriamo che la Cina è riuscita ad arrivare nella parte scura della Luna, dove noi non siamo mai riusciti ad arrivare.
Note
(1) Concetto di etica antecedente alla Critica del Giudizio, riferito principalmente al periodo delle due Critiche, pura e pratica: la riflessione sulla terza Critica rivoluzionerà ampiamente le posizioni di Kant.
(2) La fine della storia, concetto-chiave nel pensiero del politologo Fukuyama.