Quei brandelli di libertà di parola, opinione e manifestazione ancora esistenti in Tunisia – luminosa conquista della Rivoluzione del 2011 – hanno impedito a Kais Saied e al suo staff di fare del referendum costituzionale del 25 luglio un plebiscito trionfale.
E’ vero che KS non ha voluto osservatori esterni, che le ong interne hanno incontrato mille difficoltà per farsi accreditare (e non hanno nemmeno usufruito dei generosi budget europei del passato), che i media vengono ormai trattati come fastidiosi questuanti, che l’unica televisione autorizzata ad ospitare la campagna elettorale è stata la televisione di stato alla cui testa KS ha messo un altro dei suoi fiduciari, che i portavoce del boicottaggio non sono stati ammessi al dibattito, che l’authority indipendente per le elezioni (Isie) ha conservato lo stesso nome ma non ha più uno straccio di indipendenza essendo tutti i suoi membri uomini di fiducia del presidente da lui scelti personalmente.
E’ vero che ha potuto sbandierare la maggioranza bulgara – o meglio benalista – del 94% al suo progetto di costituzione. Ma non ha potuto nascondere al popolo tunisino insieme smaliziato e deluso che ad andare a votare è stato solo il 30% degli elettori. Decisamente troppo pochi per sostener che “echaab yourid” – il popolo lo vuole.
Il grosso dei partiti politici – lungo uno spettro amplissimo che va dall’estrema destra dei nostalgici benalisti di Abir Mussi all’estrema sinistra dei marxisti operaisti di Hamma Hammami, con al centro una inedita coalizione di “laici” e “islamici” riuniti nel “Fronte di Salvezza Nazionale” – ha lanciato la parola d’ordine del boicottaggio (a fronte di una sparutissima minoranza che invitava ad andare alle urne comunque e votare “no”) e oltre il 70% degli iscritti alle liste elettorali frettolosamente aggiornate dall’Isie stessa per l’occasione non è andato a votare.
Poco importa che di quel 70% di elettori che hanno disertato le urne la maggioranza lo abbia fatto non in funzione anti-Saied ma “per mancanza di interesse” come da sondaggio di Sigma Conseil. Perché bisognerebbe comunque concluderne che nel corso di un anno drammatico il presidente ha usato tempo, soldi, energie e propaganda per un progetto di cui ai tunisini non importa proprio nulla.
Se è vero che il tasso di partecipazione al voto è andato costantemente calando nelle diverse tornate elettorali seguite alla Rivoluzione, pur tuttavia le elezioni che hanno visto in assoluto meno votanti – le municipali del 2018 – hanno pur sempre raggiunto il 35,6% degli elettori registrati. Alle ultime legislative, nel 2019, hanno votato oltre il 40% dei potenziali elettori e al secondo turno delle presidenziali, lo stesso anno, la percentuale dei votanti è arrivata al 57%. Hanno votato in quella occasione circa 3 900 000 elettori: tra questi 2 800 000 (il 73%) sono stati quelli che si sono espressi per Kais Saied, assicurando la sua trionfale elezione a Presidente della Repubblica.
Due anni dopo, il 25 luglio 2021, Kais Saied assumeva i pieni poteri con un colpo di Stato che ancora oggi media e politici si ostinano a designare con inediti eufemismo come “colpo di forza” o “colpo di mano”. Dopo aver sciolto il parlamento e quasi tutto l’impianto delle istituzioni costituzionali (consiglio superiore della magistratura, autorità indipendenti), dopo aver aperto una consultazione online tra i tunisini (cui ha partecipato un misero 6%) per conoscere i loro desiderata in materia costituzionale,
Kais Saied ha affidato a un piccolo comitato di suoi fiduciari il compito di redigere una nuova costituzione, ha rivisto e modificato la bozza di suo pugno, l’ha rimodificata quando era già stato pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e infine l’ha sottoposta ad un referendum puramente consultivo (come si evince dalle norme transitorie) e senza quorum.
Hanno avuto buon gioco, a questo punto, partiti e società civile, a sostenere che non soltanto il processo era illegale –“al di fuori degli standard minimi democratici richiesti per qualsiasi processo di revisione costituzionale” come ha osservato la Commsssione di Venezia – ma la partita era truccata in partenza, le garanzie contro i brogli inesistenti e l’esito già determinato. Con l’opzione politica del boicottaggio, è chiaro che il tasso di partecipazione al referendum diventava la vera posta in gioco.
Stimato intorno al 25% dai primi exit polls, esso è poi stato poi quantificato dall’Isie in 2 500 000 votanti, pari al 27,2% dei potenziali elettori. Il giorno dopo però la stessa Isie ha scoperto altri 400 000 voti venuti da chissà dove che portano la percentuale dei votanti al 30% – una cifra che non si allontana troppo da quella degli elettori di Kais Saied un anno fa.
A prendere per buoni questi dati Kais Saied godrebbe dunque, oggi come un anno fa, del supporto di uno zoccolo duro del 30%, degli elettori, più che sufficienti per eleggere legittimamente un capo di Stato secondo procedure costituzionali democratiche ma del tutto insufficienti per legittimare la pretesa di Kais Saied di rappresentare “il popolo”
Tanto più che nelle condizioni di questo voto referendario non recarsi alle urne equivale più o meno ad una dichiarazione di voto contro il Presidente che molti non osano fare o esplicitare. Tra i ceti borghesi della capitale ci sono famiglie partite in vacanza, guarda caso, proprio alla vigilia del voto. Tra i ceti popolari delle regioni più povere, quelli dipendenti dagli aiuti statali, gli osservatori informali parlano di pressioni.
E’ vero che in fin dei conti voci simili in passato sono circolate sul conto di Ennhdha. La differenza è che negli ultimi dieci anni c’erano centinaia di osservatori occhiuti, e pesanti procedure di controllo. E se l’Isie ha fatto pasticci anche in passato, oggi non ha strumenti per controbattere a chi l’accusa di aver gonfiato il numero dei partecipanti.
Che il risultato non fosse all’altezza delle aspettative se ne deve essere accorto anche Kais Saied che ha sentito il bisogno di giustificarlo con le forti temperature di questi giorni. In altri termini, la gente sarebbe andata al mare invece di votare. Il che, ancora una volta, non depone un granché a favore della popolarità del leader. Del resto la notte di questo 25 luglio, mentre Kais Saied si concedeva il solito bagno di folla sull’avenue, la folla non era proprio tale.
La città, ivi compreso il suo centro, e salvo qualche timido tentativo di suono di clacson, restava immersa nel silenzio, mentre sull’Avenue alcune centinaia di persone riproponevano una coreografia ormai troppo familiare per non essere sospetta: canti e balli e tamburelli e a guardare bene sempre le stesse facce.
Giocando sulla voluta confusione tra elettori potenziali e votanti effettivi Kais Saied tuttavia gongola sul 94% di “si” ottenuti, sicuro che media e cancellerie d’Occidente si mostreranno ancora una volta disponibili a chiudere un occhio sul bluff. I primi ora versano lacrime di coccodrillo sulla fine della rivoluzione dei gelsomini di cui si sono disamorati dieci anni fa, quando dalle prime elezioni democratiche nella storia del paese è uscito gran vincitore un partito di ispirazione islamica.
Le seconde si orientano compunte a fornire quegli aiuti economici di cui sono state avare per dieci anni e ad esercitare la propria influenza sul Fmi perché tratti la Tunisia con una misericordia che ad altri paesi è stata negata.
Malgrado tutti lo diano per vincente Kais Saied appare dunque in calo di consenso. Ma questo vuol dire poco. Potrebbe procedere come ha fatto finora, forte di un 30% di pretoriani organizzati attivi sui social media, nei gangli della burocrazia statale e in quelli delle forze armate e di sicurezza nonché in qualche settore del mondo degli affari. Tuttavia almeno nelle ultime due categorie – esercito e business – vi sono segnali di insofferenza.
Potrebbe allora succedere che chi lo ha portato al potere decida di sostituirlo con qualcuno dal pugno più duro e dalla psiche meno labile. E rischia di succedere davvero se l’opposizione non sarà in grado di proporre rapidamente qualcosa di più convincente.