All’indomani della schiacciante vittoria del Centrodestra i media stanno dedicando molto spazio alle sorti del PD ed è già iniziato il toto nomi per la successione a Letta. Dall’interno del partito c’è chi ha ipotizzato un semplice cambio del nome e chi addirittura il suo scioglimento. Cosa possiamo realisticamente aspettarci?
Nella seconda parte della maratona elettorale di Mentana, cioè nei commenti del day after condotti dall’infaticabile direttore del Tg LA7, il tema più sentito è stato il futuro del Partito Democratico. Cosa farà il PD dopo questa sconfitta? Sarà in grado di formulare una exit strategy? A domande di questo tipo Mentana aggiungeva dubbi sulle reali possibilità di ripresa di un partito che in definitiva non ha una visione del mondo che lo identifichi. Nel mentre Paolo Mieli ironizzava sul fatto che il PD, sconfitto anche nel 2018, è riuscito a stare al governo per buona parte della legislatura appena terminata rifuggendo le elezioni anticipate.
La vera notizia però sarebbe che è stata la destra a dare al paese il primo premier donna della Storia d’Italia (oltre 150 anni) e che per la prima volta nella storia repubblicana del Bel Paese (quasi 80 anni) un partito di destra-destra è arrivato primo alle elezioni.
Mai una vera autocritica
La vittoria del Centrodestra a trazione Fratelli d’Italia è un fatto che i sondaggi davano per scontato da tantissimo tempo e questo sarebbe in ogni caso bastato a non avere elezioni anticipate almeno fino al 24 settembre, quando i parlamentari al primo mandato avrebbero maturato il diritto alla pensione. Infatti, si è votato il 25 settembre.
L’emergenza sanitaria, la guerra in Ucraina e la crisi economica sono stati il pretesto con cui si è provato a tirare a campare il più possibile, ma dalla caduta del Governo Conte II non c’era alcun presupposto politico per non tornare alle urne. Però, che si fosse votato un anno prima o sei mesi dopo, cioè alla scadenza naturale della legislatura (oltre marzo 2023 non si sarebbe potuti andare), il risultato non sarebbe cambiato di molto e questo era noto a “tutti” da tempo.
La cosa sconvolgente e imbarazzante allo stesso tempo è che il segretario ormai uscente del Partito Democratico, nella conferenza stampa post voto del 26 settembre, ha più volte ribadito che “la Meloni ha vinto perché Conte ha fatto cadere il governo Draghi”. Questa strampalata mistificazione di Enrico Letta denota una certa riluttanza all’onestà intellettuale anche quando la realtà era sotto gli occhi di tutti.
Da anni il PD è percepito, a giusta ragione, come il partito delle ZTL nelle metropoli opulente laddove sussistono le maggiori disuguaglianze sociali che lo vedono avulso alle periferie, che giustamente non lo votano. La campagna elettorale di questa estate è stata caratterizzata dal lutto per il governo Draghi seguito da manifesti discutibili su cui lo stesso Letta è stato costretto ad auto ironizzare. Il tema di fondo è stato la fluidità di genere e come ciliegina sulla torta abbiamo avuto la trovata, che sembra ad orologeria, della puntata di Peppa Pig con una famiglia arcobaleno. Non è mancato neanche il ritrito tributo alla “scienza” come già nel 2018 dopo il Decreto Lorenzin sull’obbligo delle vaccinazioni pediatriche. Diciamolo apertamente, è sembrato che si stesse lavorato per peggiorare le previsioni dei sondaggi! A nulla è servito neanche l’appoggio “esterno” degli influencer, dei cantanti non binari e della narrazione a reti unificate del pericolo neofascista (è intellettualmente imbarazzante anche solo elencare questi punti “programmatici”).
Il congresso come elaborazione del lutto
Oltre a dare la colpa a Conte per la vittoria della Meloni, sempre il 26 settembre Letta ha annunciato un congresso del partito nel quale non si presenterà come candidato alla segreteria. E quindi?
Chiunque ne abbia fatto esperienza sa che i congressi di partiti e sindacati sono la sede per ratificare decisioni già prese o per regolamenti di conti perpetrati stringendo il coltello tra i denti mentre si procede alla conta delle teste. Non si intravede all’orizzonte alcuna traccia di riflessione e scarseggiano quelli che potrebbero farlo.
Da un lato abbiamo chi vorrebbe approfittarne per lanciare un’OPA sulla segreteria e dall’altro chi vorrebbe sciogliere il partito. Tra i nomi più gettonati per succedere ad Enrico Letta abbiamo l’attuale Presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini che però è tallonato dalla gettonatissima Elly Shlein, attuale suo vice-presidente in Regione.
La Shlein ha tutti i tratti della personalità che può accelerare la corsa del PD verso lo schianto finale: è l’eterna senza tessera di partito e la sua elezione a segretario sancirebbe che l’iscrizione di lungo corso produce militanti di cartone; si è contrapposta alla Meloni del famoso “io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana, …” chiudendo la campagna elettorale del partito a cui non è iscritta ribadendo “sono una donna, amo un’altra donna, non sono una madre…”; ha la cittadinanza svizzera, quella statunitense ed è sponsorizzata dalla stampa internazionale in stile Maneskin. Incarna cioè proprio tutti quei pattern che hanno portato il PD alla sconfitta del 25 settembre. Se si vuole proseguire la corsa sull’attuale binario il conducente in pectore è senza ombra di dubbio lei.
Non ha fatto neanche tanto scalpore Rosy Bindi che invita il PD a suicidarsi perché “un congresso sarebbe accanimento terapeutico”. Quasi della stessa idea anche Orfini che parla di sciogliere e rifondare il partito perché a suo dire questo ha esaurito la fase espansiva ed è diventato “un soggetto respingente” (come dargli torto su quest’ultimo punto?). Lo stesso ha anche ironizzato sui tanti nomi che già circolano per la segreteria quando il congresso non è stato ancora indetto. C’è poi chi favoleggia soluzioni che prevedono solo il cambio del nome del partito ma vale la pena di riportare la cosa solo per evidenziare che manca una via maestra.
Le possibilità reali e i tempi elettorali
E’ difficile prevedere quale direzione prenderà il Partito Democratico anche perché al momento oltre allo sconforto per il risultato elettorale domina la stanchezza per le enormi energie profuse a rimandare sia le elezioni che una riflessione-discussione su quanto i sondaggi palesavano da tanto tempo. Il PD è quindi in enorme ritardo, colposo, su un’incombenza di vitale importanza. Dalle dimissioni di Zingaretti come segretario, con tanto di “nel PD si pensa solo alle poltrone”, la classe dirigente del partito ha pensato soltanto alla sopravvivenza del Governo Draghi, forse perché prevaleva già da oltre un anno la valutazione che non c’è più molto da salvare.
Ma non esiste solo il gruppo di comando, esistono i quadri intermedi e gli iscritti-militanti che in questi giorni sui social sembrano più disorientati che mai. Poi ci sono gli elettori, tra cui gli astenuti, quelli che considerano che sia un male per il paese non avere un partito progressista degno di questo nome. Anche se forse chi ne ha il potere ha già decretato la fine del PD ci sono le Elezioni Regionali 2023, a partire dal Lazio e dalla Lombardia, che obbligano a trascinarsi almeno per tutto il prossimo anno (in vero ci sono sempre delle elezioni in vista per chi pensa prevalentemente alle poltrone).
Se in Lombardia sembra non esserci speranza nel Lazio il cosiddetto “campo largo” del centrosinistra ha possibilità di farcela. I tempi per lo scioglimento del PD e per una fusione a freddo col M5S che si è reinventato progressista sono troppo stretti quindi probabilmente si terrà in vita il partito senza con un segretario traghettatore ma senza una direzione da seguire.
E’ ipotizzabile che col successore di Letta saranno deposte le asce sguainate sia prima che dopo il voto, da Conte quanto dal segretario uscenti del Partito Democratico. Ma se Atene piange Sparta non ride, il Movimento 5 Stelle è a sua volta un partito che deve ancora decidere cosa fare da grande. E comunque, cosa succederebbe se il centrodestra vincesse anche nel Lazio contro l’improbabile sintesi del cosiddetto “fronte progressista”? In definitiva, questa pantomima potrebbe protrarsi ancora per molto.