Tra i musulmani si discute della mancata rappresentanza in politica della seconda confessione religiosa del paese. Si tratta di una presenza nella società che non sempre riflettere su di sé, che spesso non esprimere i propri bisogni e che l’offerta politica sembra contenta di non intercettare. E’ possibile un nuovo corso? Se sì, che fare?
Ad ogni vigilia delle elezioni che siano parlamentari, o amministrative in città e regioni dove c’è una significativa presenza di musulmani, tra i fedeli che seguono la politica si rianima il dibattito sulla necessità o meno di una rappresentanza nelle istituzioni politiche dei valori e delle istanze di quella che in Italia (e in Europa) è ormai da decenni la seconda religione professata.
Tra chi crede che ce ne sia bisogno c’è anche chi invoca la costituzione di un Partito Islamico perché alla domanda “è necessaria una nostra presenza in politica?” fa seguito la domanda “dove si configura il nostro spazio politico?”. Se la discussione dopo la prima domanda prosegue tra chi concorda su questa necessità, la seconda questione di norma non porta mai ad una sintesi perché l’offerta politica data è (a dir poco) insoddisfacente al cospetto dell’etica religiosa.
Non costituiscono ambito di questa riflessione le circostanze che portano alle ormai consolidate candidature di musulmani, un po’ in tutti gli schieramenti, perché dopo non poche esperienze in tal senso non si rileva alcun avanzamento politico, se non individuale, ed ogni volta è sempre come la prima volta.
Come sono visti i fedeli dell’Islam
I musulmani convivono con una sorta di eccezionalismo islamico in cui la società dà per scontata la necessità di una sorveglianza speciale su di loro. Quando non ci sono gli attentati la comunità islamica scompare dalla scena, viene completamente ignorata dalle istituzioni e resta oggetto di “indagine” solo da parte dell’indotto di ricerca accademica nato intorno alla sua presenza. Non appena invece i musulmani escono dall’ombra non si riconosce loro la dignità di cittadini liberi dal dover sempre smarcarsi da qualcosa, giustificarsi di qualcosa, dimostrare qualcosa. Vige cioè la presunzione di colpevolezza, inadeguatezza e inferiorità.
In caso di attentati (all’estero) lo Stato (italiano) si “ricorda” che non c’è un accordo con la seconda confessione del paese (manca cioè un’Intesa ex art. 8 comma 3 della Costituzione, da cui anche l’8×1000) ed intavola ogni volta il “primo” incontro (dopo 50 anni!). Il fine è palesemente mediatico: rimarcare l’approccio securitario invocato dai talk show. Il periodo della pandemia è stato emblematico. Il Covid-19 è risultato un vaccino contro l’ISIS, non ci sono stati attentati e quindi le TV non erano a caccia del musulmano a cui chiedere “cosa dice il Corano sugli attentati?”.
Esiste una specificità islamica?
I musulmani sono mediamente non dissimili da altre categorie di persone ma il dato di fatto ineludibile è che si è seguaci di una religione che non ha seguito la civiltà da essa generata quando questa è stata dominata dalla modernità occidentale. Questa differenza costituisce un valore identitario che andrebbe (auto)difeso. Quando il desiderio di essere “accettati” prevale sulla necessità di difendere questa specificità la conseguenza può essere la goffa negazione della stessa oppure il prendere le distanze da quella che viene bollata come arretratezza. Il musulmano in politica che non sente di dover difendere questo valore identitario non è molto utile né alla società (quella ideale che non reprime nessuno) né alla sua comunità religiosa (quella ideale conscia di sé).
Il diritto alla differenza islamica
Il filosofo marocchino Taha Abderrahmane, in nome della modernità e non quindi per un ritorno al passato, sostiene il diritto filosofico alla differenza islamica, differenza di pensiero ovviamente. Nella sua critica filosofica alla modernità occidentale, che ha colonizzato il mondo, Abderrahmane sostiene che un’altra modernità sia possibile, necessaria, e che quella che si è venuta a configurare in Occidente, e che è stata più o meno imposta a tutto il mondo con la superiorità economica e militare, è da considerarsi come una “prima modernità”, una modernità incompleta che nel suo diffondersi su tutto il globo ha mostrato le sue insanabili contraddizioni.
A questa modernità, per Abderrahmane, deve fare seguito una “seconda modernità”, plurale quanto globale, certamente più etica e responsabile di quella attuale. Come vedremo, ci sono autorevoli pensatori in Occidente che sostengono cose simili. Il filosofo marocchino mette in discussione tutto quello che da un certo punto in poi è stato dato per scontato nella storia del pensiero, come la necessità tutta occidentale di separare la sfera “temporale” da quella “spirituale” (non vi è infatti alcuna ragione perché questo passaggio storico relativo al rapporto dell’Europa con la Chiesa debba costituire un assioma universale ed eterno).
Nello sviluppo di un pensiero, e perché no anche di una visione del mondo, da cui far discendere una proposta politica che includa anche la rivendicazione di un diritto alla differenza, la posizione filosofica di Taha Abderrahmane potrebbe senz’altro contribuire alla nascita di qualcosa che oggettivamente manca. Le resistenze che si incontrerebbero le si può intuire già dal fatto che una simile riflessione è ancora in corso anche nei paesi a maggioranza musulmana e poi va considerato che i tempi in cui viviamo hanno mostrato la violenta riluttanza del pensiero unico a qualsivoglia opinione non allineata (vedasi la gestione mediatico-governativa di tematiche come la “guerra in Ucraina”).
Non costituisce obbligo per il musulmano (di sicuro non un obbligo religioso) indagare gli sviluppi del pensiero dalle origini dell’Islam all’irruzione della modernità occidentale. Ma a quelli con un livello culturale medio-alto che sentono di doversi impegnare in politica non è azzardato chiedere di non reprimere le loro stesse differenze, perché inevitabilmente lo farebbero “a nome” di tutti.
La resistenza del secolarismo
Lo scenario del pensiero occidentale odierno può essere sintetizzato come segue: i filosofi contano pochissimo ormai da tanto tempo ma ci si vanta di una superiorità di pensiero i cui termini sono ignoti ai più (alla fine tutto sembra ridursi alle minigonne, agli uomini che indossano gonne e ai cantanti non-binari). Come a cercare visibilità, in ambito accademico il sapere umanistico, che ha trovato nuova linfa nell’indotto economico dello “scontro di civiltà”, certifica questa presunta superiorità a beneficio di una società che comunque procede facendo a meno di questo sapere.
Un esempio di operato in tal senso è la laurea honoris causa in filosofia conferita dall’Università di Genova nel 2004 ad Hans Kung, persona a cui Papa Giovanni Paolo II ha revocato l’abilitazione all’insegnamento della teologia nelle facoltà cattoliche. Nella sua lectio magistralis Kung parte dalle tesi sul declino dell’Impero Ottomano sostenute da Bernard Lewis ma bocciate dalla storiografia moderna e, come fossero ancora valide, propone di retrodatare l’inizio del declino della civiltà islamica (XVI sec. secondo Lewis) alla morte di Averroè (XII secolo). Viene quindi il dubbio che si possa ottenere un dottorato honoris causa affermando che ognuno di noi inizia a morire dal momento in cui nasce.
Averroè (Ibn Rushd) non è stato certo scelto a caso. E’ tesi consolidata nell’orientalismo che la filosofia nel mondo islamico sia morta con lui (nel 1198!). Di riflesso oggigiorno anche nel mondo arabo, culturalmente non proprio produttivo, quasi si ignora ad esempio lo sviluppo del pensiero islamico che si è espresso in lingua persiana, almeno fino a Mulla Sadra (XVII sec.) e passando per il Rinascimento Timuride (XIV-XVI sec.). E’ indubbio che la civiltà islamica abbia imboccato percorsi degenerativi a partire dal ‘700 ma certi filosofi occidentali, fosse solo per l’ininfluente ruolo odierno della filosofia nella nostra società, potrebbero anche smetterla di proporre “all’Islam”, come panacea di tutti i mali, il ritrito modello di filosofia separata dall’esperienza religiosa perché in definitiva il pensiero islamico è diverso.
Hans Kung sostiene testualmente che il modello fatto di precetti, credo e perfezionamento interiore (islam, iman e ihsan, così come esposti nel famoso Hadith dell’Arcangelo Gabriele) leda rispettivamente la libertà, la dignità e la ragione del musulmano (da 1500 anni!!!). E così da teologo cattolico squalificato ce lo siamo ritrovati come filosofo delle religioni per le Nazioni Unite al tempo di Kofi Annan (e la laurea in filosofia glie l’abbiamo data in Italia!).
La società post secolare
Ci sono fortunatamente anche pensatori occidentali che non sono al servizio dell’agenda materialista del neo-liberismo che nega una realtà globale post-secolare. Già John Raws (1993) aveva affermato che nella modernità lo stato si laicizza ma la società non segue di pari passo la secolarizzazione. Subito dopo le reazioni all’11 settembre Jurgen Habermas ha avviato la sua critica al laicismo sclerotizzato del liberalismo contemporaneo. Nell’analizzare la società globale nella quale viviamo Habermas sostiene che sia in corso una rinascita delle religioni che andrebbe valorizzata e convogliata anche nel dibattito politico dove invece su temi cruciali come quelli etici c’è il monopolio del materialismo. Nel tessuto sociale delle grandi metropoli occidentali, quali sono città come Roma e Milano, abbiamo una oggettiva pluralità religiosa alla quale non corrisponde una società plurale. La cosiddetta laicità, alla prova dei fatti, si è rivelata essere estremismo laicista più del terreno neutrale che millanta di essere.
Sulla necessità di un reale pluralismo che metta sullo stesso piano le persone non religiose e quelle credenti (ovviamente non solo cristiane) si sono espressi sia pensatori che credono nell’esistenza di un fine ultimo per gli uomini, come il teleologo comunitarista Charles Taylor, sia liberali contrari alla teleologia, come Isaiah Berlin. Quest’ultimo non credeva in un’umanità votata ad una causa ultima, né in senso religioso né in senso aristotelico, ma ha sviluppato l’importante concetto di libertà passiva, cioè l’essere liberi “da”, che è cosa ben diversa dalla libertà comunemente intesa, che a questo punto possiamo chiamare libertà attiva, cioè l’essere liberi “di”. In una società veramente libera ci dovrebbe essere anche la libertà dal dover dimostrare il proprio grado di secolarizzazione ma questa non è affatto scontata.
Una società libera dovrebbe escludere dal dibattito pubblico solo l’intolleranza (Paradosso di Popper, 1945) che non è affatto monopolio del pensiero religioso (basti pensare al pensiero unico scientista asceso durante la pandemia del Covid-19). Per rinverdire la riflessione pubblica col contributo del pensiero religioso, che incontri quello dei pensatori non credenti, è necessario creare uno spazio veramente plurale per la ricerca di un accordo sui principi e per giungere a quel “consenso per intersezione” del liberalismo politico di John Raws. Per Habermas, in questa dinamica, il contributo del pensiero religioso dovrebbe essere formulato con un linguaggio de-confessionalizzato, pena la sua inefficacia. Purtroppo però siamo ancora al problema di dare cittadinanza, anche politica, a questo pensiero.
I riferimenti e la difesa del Corano
Anche se dal declino dell’Impero Ottomano (XVIII-XIX sec.), che culminò con l’abolizione del Califfato (1924), il fu mondo islamico nel suo complesso è politicamente allo sbando, non sono mai mancati esempi luminosi, pensatori che indicano la rotta in mezzo al nubifragio che mira a separare i musulmani dall’Islam. Abbiamo già parlato di Taha Abderrahmane che scrive in lingua araba, faremo ora cenno a due pensatori contemporanei che hanno scritto, tra l’altro, rispettivamente in lingua persiana e in lingua turca: Muhammad Iqbal e Said Nursi.
Muhammad Iqbal (1877-1938), indiano, considerato il padre spirituale del Pakistan e soprannominato il poeta dell’est, era un filosofo, poeta e studioso della religione islamica che ha scritto in diverse lingue orientali e occidentali. Sebbene non fosse la sua lingua madre, la profondità dei suoi versi nell’idioma persiano lo ha reso celebre anche in Iran. In merito alla differenza sostanziale tra gli assunti fondamentali del pensiero classico greco e quelli della rivelazione coranica Iqbal non si sforzava certo di trovare una sintesi acrobatica ma affermava che “lo spirito del Corano è essenzialmente anti-classico” ed invitava ad una ricostruzione del pensiero religioso in cui le giovani generazioni di musulmani si relazionassero alla pari col pensiero occidentale attraverso gli strumenti forniti dalla stessa tradizione islamica (in questa proposta la questione della separazione tra la sfera “temporale” e quella “spirituale” manco si pone).
La principale intuizione politica di Muhammad Iqbal è riassumibile nel suo intervento al Congresso della Lega Musulmana Panindiana che si tenne ad Allahabad il 29 dicembre 1930 in cui, al contrario di Gandhi e di Ghafafr Khan (il cosiddetto Gandhi musulmano o Gandhi della frontiera), lui affermava “nel migliore interesse dell’India e dell’Islam” la necessità di uno stato per i musulmani nella provincia della frontiera nordoccidentale dell’India Britannica (che includeva l’attuale Pakistan).
Questa sua presa di posizione, che sdoganò la teoria delle due nazioni, denota il lucido realismo e la lungimiranza politica di Iqbal. Diverso il discorso per le vane aspettative che almeno inizialmente egli riponeva nel “passaggio nazionalista” in corso nei paesi a maggioranza islamica (quale non era la sua India) che non gli fecero comprendere subito la portata antireligiosa che questo passaggio aveva in Turchia. Ma si tratta di un errore di valutazione fatto da molti, anche nei decenni a seguire.
Said Nursi (1878-1960) invece ci ha lasciato una visione dei tempi tutt’ora valida. Detto stupore del suo tempo (Bediuzzaman), Nursi era soprattutto uno studioso della religione ed aveva preso parte alla Prima guerra mondiale nelle fila dell’esercito ottomano.
Prima della caduta dell’impero scriveva anche in arabo perché idealmente si rivolgeva ai musulmani di ogni dove e in quel periodo il “vecchio Said”, come lui stesso si autodefinì, partecipava attivamente alla discussione politica. Dopo l’abolizione del califfato si dedicò prevalentemente a scrivere le Epistole della Luce in turco-ottomano rivolgendosi agli abitanti della nascente nazione turca, con l’obiettivo dichiarato di difendere il Corano e l’Islam dai sistematici attacchi della ferocia laicista dei seguaci e successori di Kemal Ataturk, rifiutando ogni coinvolgimento in politica tra cui quello per la rivendicazione di un Kurdistan (lui era anatolico di etnia curda).
L’operato del “nuovo Said” gli costò 25 anni di processi, carcere ed esilio in cui lui continuava a scrivere quella che può anche essere considerata come una moderna esegesi del Corano, in parte disponibile anche in italiano, perché le sue Epistole sono state redatte quando ormai non esisteva più una civiltà islamica che ne avrebbe fruito ma al suo posto c’era una nuova società in cui il sentimento antireligioso aveva disseminato il dubbio e l’odio per la Verità Rivelata. Destinate al vasto pubblico, le Epistole della Luce si caratterizzano appunto per il target a cui si rivolgono e per una lettura dei tempi ancora attuale. Alla lungimiranza di Nursi deve aver contribuito la specificità del caso turco. Unica macroarea dell’ex impero a non essere stata colonizzata, la Turchia si era rapidamente liberata dall’occupazione straniera a seguito della Prima Guerra Mondiale ed aveva avviato “autonomamente” quella laicizzazione che nei paesi arabi è iniziata invece sotto il dominio coloniale. Non c’era nessun invasore a cui addossare le colpe per un processo endogeno che si è rivelato irreversibile. In merito al rapporto tra filosofia e saggezza, Taha Abderrahmane paragona il passaggio dal vecchio al nuovo Said alla rivoluzione copernicana nella rappresentazione del rapporto tra terra e sole, “tra la terra della filosofia e il sole della saggezza”.
Non mancano quindi i riferimenti per la formulazione di un pensiero islamico alternativo scevro da condizionamenti esterni, così come esiste in occidente anche un dibattito serio in cui inserirsi.
Che fine ha fatto l’Islam politico?
Dopo la Rivoluzione Iraniana del 1979 abbiamo assistito ad un aumento dell’interesse per il cosiddetto Islam politico ma da tempo ormai si era notevolmente abbassata la qualità della discussione accademica. Se sulla Repubblica Islamica dell’Iran insiste ancora, tra le altre, una narrazione che ne fa un po’ la Cuba del fu mondo islamico lo stesso non si può dire per il tentativo operato dalle Primavere arabe che tutti ormai considerano giocoforza un “esperimento” fallito, anche chi in Occidente ne aveva una laica ammirazione per via della sua narrazione sugli obiettivi democratici perseguiti.
Va però tenuto a mente che quella che fa riferimento a figure come Hassan al-Banna (1906-49) è un’ideologia transazionale, oggi multiforme, nata politicamente come anticolonialista ma che persegue una riforma religiosa che Tariq Ramadan definisce “allo stesso tempo modernista e fondamentalista”. Una sorta di fondamentalismo non letteralista che vuole “cancellare” i secoli di decadenza della civiltà islamica (finendo però per includervi almeno in parte la islamic golden age) e che ambisce ad essere “islamicamente” al passo coi tempi facendo perno su una metodologia “snella” di pronunciamento religioso. Quest’ultimo è un aspetto poco considerato dagli islamologi contemporanei ma costituisce un tratto caratteristico di questi movimenti e allo stesso tempo un fattore di divergenza con le altre correnti religiose.
Tornando alle Primavere arabe, che si tratti della progressiva contro-primavera in Tunisia, o del golpe di el-Sisi in Egitto che ha capovolto gli esiti della rivoluzione, o del fallimento sul nascere del tentativo siriano (di cui ci resta un’immensa catastrofe umanitaria), lo shock per i musulmani nostrani sostenitori di questa “esperienza” è stato tale che praticamente non se ne parla più. In parallelo, le cosiddette seconde generazioni di musulmani che studiavano la possibile applicazione in Europa di questa corrente politico-religiosa attraverso i libri di Tariq Ramadan hanno completamente abbandonato il loro autore di riferimento un tempo richiestissimo nei loro convegni. Probabilmente per puritanesimo dovuto alle vicende giudiziarie (in pieno stile Me Too) che lo han visto coinvolto negli ultimi anni ma forse anche un po’, insieme ai loro padri, perché già a caldo Tariq Ramadan non espresse un giudizio complessivamente positivo sulle Primavere arabe (ed il tempo gli ha dato ragione).
Gli esiti politici di queste rivolte hanno dato la definitiva “vittoria” in materia religiosa ad un neotradizionalismo che si dice in continuità con l’Islam “classico” ma che, almeno per ciò che concerne l’impatto di utilità sociale, vanta come minimo un secolo di improduttività (in alcuni casi anche due secoli).
Nel passaggio dal potere califfale a quello coloniale le autorità religiose “classiche” hanno lasciato un vuoto che, soprattutto nel ‘900, si è riempito di ogni proposta “contro l’invasore” o comunque non al soldo di quest’ultimo. E’ questo il contesto nel quale al-Banna fonda i Fratelli Musulmani in Egitto (1928) che, almeno fino al suo assassino (1949), spaventeranno il potere politico coloniale e quello egiziano, per il seguito di cui godevano grazie soprattutto al lavoro sociale ed educativo svolto. Questa “associazione” contemplava l’uso della violenza solo per legittima difesa, quale era considerata la Resistenza Palestinese tanto a cuore ad al-Banna e da egli sostenuta. Poi la storia del movimento e del suo rapporto col potere prenderà altre pieghe e col senno di poi si può anche dire che forse nel ‘900 in questi paesi era ormai impossibile recuperare lo spirito perduto ma non è stato certo il cosiddetto tradizionalismo ad aver difeso l’identità islamica quando ce ne sarebbe stato veramente bisogno.
A scanso di equivoci ribadiamo che l’analisi storica qui proposta verte sugli aspetti politici, sociali e culturali e non su quelli religiosi.
Che fare?
Il musulmano occidentale dovrebbe essere consapevole che la civiltà islamica che ha illuminato per secoli il mondo con la sua produzione culturale è da tempo scomparsa a differenza della religione islamica che è invece in “espansione”. Non è guardando politicamente all’attuale oriente islamico che si può trovare ispirazione. L’assenza di esterofilia potrebbe essere un ingrediente fondamentale per un pensiero islamico contemporaneo che voglia lasciare la sua impronta nel nostro tempo e nella nostra società occidentale, eccezion fatta per il sostegno alla Questione Palestinese che sublima tutte le rivendicazioni storiche e tutti gli errori politici storicamente commessi, a patto che non la si riduca al ritrito principio di autodeterminazione dei popoli.
Per quanto riguarda la piattaforma politica di un movimento di pensiero islamico questa è ancora tutta da costruire, senza alcuna soggezione e perseguendo pazientemente la definizione di una proposta alta, completa e articolata. Non è necessario avere da subito un manifesto politico che abbracci tutto lo scibile umano, anche se l’obiettivo di medio-lungo periodo dovrebbe essere quello di formalizzare una visione del mondo alternativa al materialismo imperante per operare in politica coerentemente con essa. Ci sono tanti politici di lungo corso, o partiti-persona, che interpretano il proprio ruolo occupandosi di una sola macro-tematica o addirittura di una singola proposta di legge. Non mancano certo le tematiche sulle quali poter iniziare a lavorare fin da subito e che non risultano in capo all’agenda di alcun partito.
Per prima cosa, a tutti i livelli istituzionali, il musulmano dovrebbe essere a conoscenza del vuoto normativo in materia di diritto al culto, che finisce per svantaggiare principalmente la sua comunità religiosa. Non bisogna cadere nel senso di colpa per la mancanza di un “concordato” (cioè un’Intesa ex art. 8 comma 3 della Costituzione) che non è un diritto ma una forma pattizia (a cui palesemente lo Stato non vuole giungere).
A livello nazionale quello che manca è una Legge sulla Libertà di culto (ex art. 19). Al livello regionale, dove si è verificato il fenomeno delle leggi anti-moschee, bisogna lavorare per far convergere la materia edilizia (che è regionale) verso le sentenze costituzionalmente orientate che cercano di porre rimedio alla problematica. Stesso discorso a livello comunale per la materia urbanistica. E’ nei comuni che si concentra maggiormente il peso del suddetto vuoto normativo che però non esonera le amministrazioni dal prevedere luoghi di culto per i musulmani nel piano di governo del territorio. Ogni qualvolta si è trovata localmente una soluzione tampone a questa questione ne hanno poi beneficiato anche altre realtà religiose iper-minoritarie presenti sullo stesso territorio.
C’è poi tutta una serie di problematiche il cui contrasto costituirebbe oggettivamente un comportamento conforme alla religione islamica. Tra queste vi sono senz’altro le dipendenze comportamentali, come il gioco d’azzardo, e le dipendenze dalle sostanze psicotrope, che sono l’alcool e tutti i tipi di droghe. Ma c’è anche il ricorso sistematico all’indebitamento che porta alla schiavitù nei confronti del sistema usurocratico. Si tratta di vere e proprie piaghe sociali che vengono generalmente affrontate in modo ambiguo senza prendere seri provvedimenti in materia o comunque eludendo, quando non sfruttando, le specificità della natura umana per favorire palesi interessi economici.
Infine, questo elenco non esaustivo non può non contemplare temi etici come l’utero in affitto e più in generale la genetica liberale. Qualcuno dovrà pur continuare a difendere la persona dalla mercificazione non smettendo mai di chiedersi se siamo solo materiale organico e se diritti come quello ad avere un figlio debbano necessariamente rientrare nell’ambito del diritto soggettivo. Su queste tematiche è necessario rompere il monopolio della concezione materialistica e mettere in discussione il primato della mercificazione.
A questo punto è lecito chiedersi un’ultima volta se per perseguire obiettivi politici come quelli indicati sia necessario costituire un nuovo partito o se esiste già uno spazio politico dove potersi occupare in via preferenziale di certe tematiche. Alla luce di quanto sopra esposto ci pare abbastanza evidente che per non essere schiacciati dal pensiero unico neoliberista bisognerebbe creare un’oasi protetta dove poter sviluppare autonomamente proposte alternative e dalla quale uscire col proprio cappello saldamente in testa per entrare nell’arena politica.
In Italia ci sono già partiti con una propria identità che non hanno la forza per superare le varie soglie di sbarramento elettorale e che quindi mettono i propri candidati nelle liste di partiti più grandi, cambiando anche schieramento politico all’occorrenza. Va tenuto in considerazione che l’elettorato musulmano si attesta oltre il milione di voti potenziali caratterizzati però da una forte dispersione e da un astensionismo che precede la stagione dell’anti-politica in Italia.
Ci sembra quindi necessario uscire dai social network e dai talk show per dotarsi di una forma associativa e di un’organizzazione con cui operare a vari livelli territoriali, instaurando di volta in volta specifiche partnership sociali e politiche, sulle base di serie priorità politiche più che in vista delle scadenze elettorali.
Se ci si occupa dei problemi reali della società non è difficile “farsi notare” perché questo spazio non è molto affollato. Lavorando localmente in ambiti sociali specifici è possibile guadagnare credibilità non solo agli occhi dell’elettorato musulmano ma anche di quella parte sana della politica (che nessun partito incarnata in via esclusiva) con cui poter fare rete mantenendo la propria identità che non può essere continuamente svenduta per convenienze personali del momento.
Un movimento politico strutturato ci sembra lo strumento corale più idoneo per superare i limiti delle aspirazioni soggettive e per catalizzare una forza elettorale attualmente dispersa ma che potrebbe vedervi risuonare l’invito coranico di raccomandare il bene e proibire il male. Alla luce dello scenario politico dato la costituzione di questo soggetto politico ci sembra non ulteriormente rimandabile oltre che necessaria alla società.