Una premessa è d’obbligo: parlare di Africa è fuorviante e riduttivo, in realtà di Afriche ce ne sono tante e varie. In Europa ed in Italia abbiamo una visione distorta e riduttiva del continente e dei singoli paesi che lo compongono il ché non ci aiuta né a comprendere né a capire e di conseguenza ad agire correttamente.
Ad esempio nella sola Nigeria si parlano oltre 500 lingue (una delle nazioni più ricca linguisticamente al mondo), vi risiedono oltre 250 gruppi etnici differenti e nella storia il paese è stato la culla di numerose e differenti civiltà Africane (islamiche, pagane, cristiane).
La Nigeria attualmente ha più di 200 milioni di abitanti e le previsioni dicono che nel 2050 ne avrà circa 500 milioni: potenzialmente il paese con più grandi opportunità di sviluppo ed investimento in Africa, ricco di risorse, enormi potenzialità non sviluppate nell’agricoltura e nelle infrastrutture. Tuttavia in Italia viene visto quasi unicamente come esportatore di prostituzione e droga ed un covo di “tagliagole islamici”.
“Un tempo si diceva che un Paese che abbia rispetto di sé stesso dovrebbe avere particolare cura della sua politica estera” e da 70 anni la politica estera in Italia non la fanno né i partiti politici né i gruppi di interessi particolari ma la fa l’Eni (sicurezza energetica nazionale) e la Chiesa Cattolica. L’influenza di quest’ultima si sente maggiormente nei momenti di debolezza dell’Italia ed è un dato di fatto che, dalla caduta del muro di Berlino, le strade e gli obiettivi di politica estera dei due paesi si siano allontanati. Tuttavia, in Africa, le connessioni e le reti della Chiesa, delle missioni e delle Ong ad essa collegate rimangono un asset di primaria importanza per la politica estera italiana. Moltissime imprese italiane sono arrivate in Africa dopo che missioni cattoliche ed Ong avevano fatto da apripista installandosi e creando connessioni e network locali.
In realtà nella politica estera italiana la parte del leone l’ha sempre fatta l’Eni. Ad esempio sebbene in Egitto ci siano scuole italiane dei salesiani, storiche presenze italiane e gli interscambi commerciali siano importanti, ciò che cementa il legame con il paese dei Faraoni sono i diritti di sfruttamento di importanti giacimenti di petrolio e gas detenuti dall’Eni e la costruzione di condutture che li portano in Italia (investimenti importanti e know-how prezioso) con buona pace dei parenti del povero Regeni e dei diritti umani e cose simili che tanto piacciono ai politici occidentali.
Libia, Algeria, Nigeria hanno più o meno lo stesso destino, a cui si sono aggiunti recentemente anche Congo ed Angola (di cui in realtà non ci è mai importato un granché) ma che essendo tra i principali produttori di idrocarburi in Africa diventano un pilastro essenziale in vista dell’obiettivo strategico di riduzione della dipendenza italiana dagli idrocarburi Russi.
Altro esempio in Nigeria: l’Eni oltre ad avere i diritti di sfruttamento di svariati giacimenti petroliferi ha commissioni governative per la costruzione di impianti di produzione di energia elettrica e, per i privati, è responsabile della costruzione della più grande fabbrica di fertilizzanti (attraverso la controllata Saipem) del continente e di svariate raffinerie. Per i figli dei dipendenti dell’Eni in Nigeria è stata creata decenni fa l’unica scuola privata italiana paritaria Enrico Mattei usata ora anche dai figli di molti professionisti che si sono trasferiti nel paese impiegati da aziende “italiane” di costruzioni edili ed infrastrutture (come Italiani siamo considerati tra i migliori nel campo).
Da contrappeso a questo forte attivismo dell’Eni, delle imprese private, della Chiesa Cattolica e delle Ong in Africa la politica ed i partiti Italiani sembrano totalmente assenti dal gioco, costretti ad inseguire più che a dirigere, indirizzare e coordinare come il ruolo della politica richiederebbe.
Dopo anni di inezia e di sonnolenza l’Italia pare aver scoperto almeno a livello mediatico e politico, l’Africa, anche se in realtà è più un interesse dovuto alla ricerca di soluzioni alla crisi del gas Russo (quindi ritorniamo sempre all’Eni) ché ad una visione olistica o ad un progetto strategico di lungo periodo.
È desolante constatare che l’unico argomento ricorrente nei partiti italiani (soprattutto in periodo di elezioni) riguardo l’Africa è il numero più o meno alto di immigrati che riescono ad arrivare in Italia e le connesse problematiche di ridistribuzione con i nostri “partner” europei. Lungi dal voler sminuire la problematica epocale delle migrazioni constato solamente che il dibattito non vola più alto e non va più a fondo di un generico “blocco navale” delle coste libiche contrapposto ad un finto disinteresse che svii l’attenzione da una politica di apertura incontrollata.
Ufficialmente l’Italia una politica estera ed anche africana c’è l’ha. Solitamente per descriverla si usa la metafora dei tre cerchi: cerchio mediterraneo, cerchio Europeo e cerchio Nato (e vedremo più avanti un nuovo teorizzato cerchio Africano). In sostanza una politica estera di ampio respiro e con obiettivi ambiziosi ha bisogno di fondi (anche tanti) che l’Italia pare non avere. Questo fa in modo che gli scopi reali della politica estera italiana ed in particolar modo africana (ad esclusione di quelli energetici finanziati dall’Eni) siano alquanto modesti.
Per raggiungere tali obiettivi si tende a fare affidamento ai fondi Europei, per quanto riguarda investimenti economici, di sviluppo e di cooperazione ed alle strutture Nato per quelli militari e di sicurezza. In Europa ad esclusione di pochi paesi aventi legami storici con l’Africa (Francia, Italia, Spagna e pochi altri) non c’è mai stato un vero interesse ad approfondire e sviluppare le relazioni con l’Africa, ad investire tempo denaro e risorse: l’Africa non è stata una priorità.
Per quanto riguarda gli Usa, spiccano i consistenti aiuti economico/militari all’Egitto in cambio di relazioni di sudditanza con Israele ma oltre questo non sono mai stati particolarmente interessati allo sviluppo dell’Africa. I fondi alla cooperazione e lo sviluppo del continente sono irrisori, spesso principalmente a carattere militare. Questo poco interesse nonostante le potenzialità siano enormi, basti pensare che, culturalmente, attraverso i filoni della cinematografia nera hollywoodiana e la preponderanza di musicisti e cantanti di origine africana nella produzione musicale, l’America eserciti da decenni un’egemonia culturale sulla popolazione subsahariana (l’africa nera).
Da parte Europea ed Americana l’Africa è stata data per scontata e senza speranza, una sorta di “hubris” da ex potenze coloniali che considerano il continente debole, corrotto, foriero di problemi (malattie, carestie, guerre, terrorismo etc) ed in continuo bisogno del loro aiuto umanitario.
Questo ha fatto in modo che nuovi attori si imponessero sulla scena Africana prendendo in parte il posto che l’Europa sentiva esclusivamente suo, un “diritto” garantito da legami secolari di dipendenza con le ex colonie. Così piano piano a livello economico la Cina è diventata un importante partner per moltissimi paesi Africani, garantendosi l’accesso alle risorse sia energetiche che minerarie, proponendo un diverso modello di sviluppo (non legato al concetto di democrazia e diritti umani dell’occidente) ed investendo massivamente nelle infrastrutture.
Sebbene ad oggi l’Europa rappresenti il primo partner commerciale e di investimenti in Africa, la Cina nel 2009 ha superato gli Usa come trading partner e a detta dell’Economic Intelligence Unit (EIU) nel 2030 supererà anche il vecchio continente per diventare il numero 1. Il progetto cinese di portata epocale fatto di investimenti in logistica ed infrastrutture per lo sviluppo globale dei suoi partecipanti denominato “via della seta” rappresenta indubbiamente un progetto di egemonia economica cinese anche in Africa. Più come risposta tardiva e posticcia a questa sfida cinese ché come strategia meditata di lungo termine l’Europa e con lei l’Italia si è inventata il GLOBAL GATEWAY: “Con il pacchetto di investimenti Global Gateway Africa – l’Europa mira a sostenere l’Africa per una ripresa e una trasformazione forte, inclusiva, verde e digitale attraverso: – Accelerare la transizione verde; – Accelerare la transizione digitale; -Accelerare la crescita sostenibile e la creazione di posti di lavoro dignitosi; – Rafforzamento dei sistemi sanitari; – Migliorare l’istruzione e la formazione;
Il pacchetto di investimenti sarà realizzato attraverso le iniziative del Team Europe: l’UE, i suoi Stati membri e le istituzioni finanziarie europee lavoreranno insieme per sostenere progetti concreti e trasformativi individuati congiuntamente nelle aree prioritarie.”
All’interno di questo frame work e con questi fondi si dovrebbe sviluppare il “quarto cerchio” della politica estera italiana, il cerchio Africano, teorizzato nei corridoi dall’attuale ministero degli esteri. Il dubbio è che la politica “africana” dell’Italia consisterà in sostanza nell’influenzare le scelte di spesa europee dirigendo il più possibile i finanziamenti verso i paesi della propria sfera cercando di far combaciare gli interessi nazionali con quelli europei.
Se il Global Gateway riuscirà effettivamente a coinvolgere i paesi Africani, ad incidere radicalmente e a contrastare il progetto “la via della seta” è tutto da vedere, la percezione in Africa non è positiva: “Punti interrogativi vengono sollevati anche in Africa sui motivi alla base del nuovo impegno dell’UE e degli Stati Uniti … [sollevando] ricordi di impegni passati e sono visti semplicemente come un desiderio di contrastare l’influenza cinese piuttosto che la volontà di lavorare sinceramente con i partner commerciali africani” (Economic Intelligence Unit (EIU) rapporto del 3 Agosto 2022).
Il rischio è che il progetto europeo si trasformi in una sostanziale guerra con la Cina (e altri attori globali) per l’egemonia sull’Africa, che diventi una sorta di neo colonialismo mascherato con la creazione di zone di influenza separate tra loro ed in diretta dipendenza dei paesi finanziatori, invece che favorire lo sviluppo globale ed interconnesso dei paesi africani tra loro, insomma una specie di colonialismo 2.0.
Militarmente spaventa gli occidentali la sempre più forte presenza Russa attraverso la società privata Wagner (in prima linea anche nella guerra in Ucraina). Sebbene nel periodo tra il 2004 e il 2019, l’Ue abbia fornito circa 2,9 miliardi di euro in assistenza finanziaria all’Apsa (l’Architettura africana di pace e sicurezza, partenariato UE – UA unione africana) diventando, dopo le Nazioni Unite, il secondo partner finanziario per la pace e la sicurezza dell’UA, la società privata Russa, sponsorizzata dal proprio governo è riuscita a sfruttare le debolezze e le contraddizioni dell’Apsa ed a sostituirsi a quest’ultima nell’assistenza alla sicurezza di alcuni paesi Africani.
In Mali i militari Francesi sono stati sostituiti da quelli privati Russi, ultimamente si è assistito a una lenta e graduale conflittualità anche tra la Repubblica Centrafricana e l’Ue. Lo scorso 15 dicembre, la UE ha annunciato la sospensione temporanea delle attività di formazione e di esercitazione dell’esercito di Bangui a causa del controllo esercitato dai mercenari di Wagner sulle forze armate centrafricane. Oltre ad essere presenti nella Repubblica Centrafricana, oggi i mercenari della Wagner sono presenti in Mali, in Sudan e potrebbero presto esserlo in Burkina Faso senza dimenticare la loro già attiva presenza in Libia.
I Turchi sebbene alleati e membri della Nato si sono ritagliati una presenza militare autonoma sia in Libia che in Somalia (colmando i vuoti lasciati dall’Italia) dove hanno anche una base militare e perseguono attivamente i loro interessi nazionali non solo in questi due paesi ma in tutto il continente. Per l’Italia la Turchia è una diretta concorrente sia geopoliticamente (influenza nel mediterraneo e nei Balcani) sia economicamente (export), anche se in alcuni files siamo alleati (ad esempio in Libia). Unitamente alla presenza militare i Turchi sono in Africa per sviluppare le opportunità di investimento delle loro imprese, Erdogan nelle visite ufficiali è sempre circondato da industriali ed investitori. Dall’intervento militare turco in Libia nel 2019 i legami con l’Africa si sono sviluppati ed ormai anche l’Europa (e l’Italia) percepiscono la Turchia come un concorrente. L’Unione Europea ha cercato di contrastare l’influenza sia turca che cinese, posizionandosi come “il partner preferito dell’Africa” durante un vertice con l’Unione africana all’inizio di febbraio di quest’anno.
Per quanto riguarda la politica estera ed africana del nostro paese la politica italiana, i suoi partiti sembrano mancare di una visione strategica, globale e se da una parte affrontano pubblicamente un solo argomento, quello dell’immigrazione, dall’altro il perseguimento degli interessi nazionali lo lasciano a forze maggiori, a quelli che realmente contano: l’Eni, l’Unione Europea e gli Usa. Sono loro i soggetti che delineano gli obiettivi e le strategie della politica estera italiana ed ai partiti non resta che seguire o al massimo fare una politica di cabotaggio.
Come se la politica estera ed africana italiana sia fuori dalle competenze dei partiti che una volta al potere non possono fare altro che amministrare quello che è deciso da altri e su cui hanno poca o nessuna influenza: “Dovremmo ricordarci che (in politica estera ndr) siamo in libertà vigilata. Perché siamo fortemente vigilati sia dagli alleati della NATO sia dagli alleati europei che ci danno i soldi. E sono prontissimi a toglierci la suddetta libertà.” (Prof. Stefano Silvestri, già presidente dello Iai (Istituto Affari Internazionali) di cui oggi è consigliere scientifico e direttore editoriale di Affari Internazionali).