Secondo i recenti dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) il consumo di medicinali contro la depressione è aumentato repentinamente negli ultimi venti anni superando più del doppio i valori del 2000.
Dati OCSE “Antidepressants consumption Daily Defined Dose per 1 000 people per day”, (Luxembourg 2003; UK 2017), da Euronews.
I Paesi con il consumo più alto sono Islanda, Svezia e Norvegia. Per quanto riguarda l’incremento è invece la Repubblica Ceca a piazzarsi al primo posto con un aumento percentuale del consumo di ben 577% fra il 2000 ed il 2020. Subito dopo si trovano Estonia e Slovacchia con un aumento rispettivo del 478% e del 460%.
La ricetta (fallita) della felicità
Secondo il Report mondiale sulla felicità nel 2020 l’Islanda figurava al secondo posto per Paese più felice mentre la Svezia era in sesta posizione. La Finlandia era la nazione più felice e la Lettonia, che nel report OCSE ha il consumo più basso di medicinali contro la depressione, era 34esima.
Chi ha osservato questa contraddizione ha proposto come chiave di lettura l’assenza di correlazione causale fra depressione e felicità proprio riferendosi al Report sulla felicità.
Il Report sulla felicità definisce quest’ultima come parametro soggettivo derivante da tre indicatori: valutazioni sulla propria vita, emozioni positive, ed emozioni negative.
La depressione d’altro canto è definita come quella condizione medica caratterizzata da elementi come un impatto negativo sull’umore, sulla capacità di godersi la vita, un senso di colpa e inutilità e così via.
Considerando i dati sugli aumenti di consumo di anti-depressivi e la definizione labile di felicità così come le metriche soggettive, una riflessione più ampia non può che portare a chiedersi cosa costituisca realmente la felicità.
I paesi più depressi secondo i dati OCSE sono quelli che hanno economie forti e welfare migliori ma queste non sembrano condizioni sufficienti a rendere realmente felici gli individui e minano l’inquadramento dei risultati del Report sulla felicità che, in questo senso, diviene più affidabile come strumento per identificare la percezione dichiarata da parte degli intervistati ma non necessariamente quella reale.
Lo stress dovuto alle misure di restrizione Covid e all’impatto socio-economico della pandemia non rappresentano una spiegazione sufficiente. Secondo i dati OCSE infatti i livelli di ansia fra il 2019 ed il 2021 sono aumentati del 10%. Un dato non indifferente ma comunque non sufficiente a spiegare quello che appare come un problema strutturale.
Una parte della risposta viene dal Consiglio nordico dei ministri, il principale forum ufficiale per la cooperazione nordica, che coinvolge Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Svezia, Isole Faroe, Groenlandia e Åland, e dalla loro decisione di analizzare la situazione più nel dettaglio. Il risultato è un report dell’Istituto di ricerca sulla felicità a Copenhagen che mostra uno scenario diverso e più complesso.
Il report osserva, ad esempio, che la religiosità è uno dei fattori che conduce a maggiore felicità. Il report lega questa parametro al maggiore senso di scopo e significato che le persone religione riescono a trarre dalla loro vita, indicando il nichilismo come una causa importante di tristezza.
Nel report del Consiglio dei Ministri del Nord la percentuale di persone che si dichiarano sofferenti o in difficoltà è circa il 12%. Questo dato non è tuttavia molto significativo il report infatti cita quello dell’OCSE osservando che i dati prodotti sono basati su medie nazionali che possono dare sì un’idea della felicità in una nazione ma non dice nulla sulla distribuzione di questa felicità.
Una problematica interessante che il report del Consiglio mette in evidenza è infatti quella dell’ineguaglianza e, in particolare, le differenze nel benessere (non esclusivamente economico). Non è indifferente, in questo contesto, che questi Paesi abbiano anche un elevato tasso di suicidi già riconosciuto come uno dei più alti al mondo da diverse ricerche degli anni ’90 e che da allora non ha visto miglioramenti di rilievo.
Gli elementi che sembrano proteggere da questa epidemia di infelicità sono la già citata religiosità e poco altro. Secondo il documento gli individui al vertice della scala socio-economica hanno una minore tendenza all’infelicità. Anche avere un lavoro è un fattore che impatta positivamente sul parametro così come non vivere isolati. Fra le categorie più colpite vi sono i giovani fra i 18 ed i 23 anni e gli anziani.