Da quando è entrato in funzione il carcere di Guantanamo un’intera generazione è già nata e cresciuta. Quattro presidenti degli Stati Uniti hanno prestato servizio. Eppure 35 uomini sono ancora rinchiusi lì dentro. Ecco il racconto dell’esperienza di Mansoor Adayfi, ex prigioniero di Guantánamo. Mansoor Adayfi è un artista ed attivista, rilasciato da Guantánamo nel 2016 dopo essere stato detenuto senza accuse né processo per oltre 15 anni. È autore del libro di memorie Don’t Forget Us Here: Lost and Found at Guantánamo.
La prigione statunitense di Guantánamo Bay è stata aperta l’11 gennaio di 21 anni fa. Per 21 anni, la struttura detentiva extragiudiziale ha ospitato un totale di 779 uomini negli otto campi dei quali si è a conoscenza. Durante questi due decenni, Guantánamo si è trasformato da un piccolo campo di fortuna con gabbie di rete in una struttura di massima sicurezza con strutture simili a bunker di cemento, il cui funzionamento e mantenimento costano quasi 540 milioni di dollari all’anno.
Ventuno anni sono tanti: in questo periodo è nata e cresciuta un’intera generazione. Quattro presidenti americani sono stati in carica. Il World Trade Center è stato risistemato.
In questo periodo, l’esercito americano, la CIA e altre agenzie di intelligence hanno sperimentato la tortura e altre violazioni dei diritti umani. Militari e persino leader di stato hanno commesso crimini di guerra. Il Congresso degli Stati Uniti ha studiato, scritto e pubblicato un rapporto che documenta le torture, gli abusi e il trattamento disumano dei prigionieri tenuti a Guantánamo e nelle basi segrete di tutto il mondo, rendendo al contempo impossibile la chiusura di Guantánamo.
L’inizio dell’incubo
Di questi 779 prigionieri detenuti a Guantánamo, sappiamo che nove sono morti in carcere; 706 sono stati rilasciati o trasferiti; 20 sono stati raccomandati per il trasferimento ma rimangono tuttora qui; 12 sono stati accusati di crimini; due sono stati condannati; e tre saranno tenuti in detenzione di guerra a tempo indeterminato finché qualcuno non chiederà il loro rilascio.
Avevo 19 anni quando sono stato mandato a Guantánamo, sono arrivato il 9 febbraio 2002, bendato, incappucciato, incatenato, picchiato. Quando i soldati mi hanno tolto il cappuccio, ho visto solo gabbie piene di figure arancioni. Ero stato torturato. Ero perso, spaventato e confuso. Non sapevo dove mi trovavo né perché ero stato portato lì. Non sapevo per quanto tempo sarei rimasto imprigionato o cosa mi sarebbe accaduto. Nessuno sapeva dove io mi trovassi. Mi fu dato un numero e rimasi sospeso tra la vita e la morte.
Non sapevo molto dell’America. Sapevo che doveva essere una terra di leggi e di opportunità. Tutti volevano vivere lì. Tutti credevamo che la nostra detenzione sarebbe stata breve. Non avevamo fatto nulla. Non potevano tenerci a lungo senza che qualcuno iniziasse a preoccuparsi. Non avrei mai potuto immaginare che avrei trascorso otto anni in isolamento, che sarei stato detenuto per 15 anni e rilasciato senza essere mai stato accusato di nessun reato.
Ho compiuto 40 anni di recente, e anche se sono un uomo adulto mi sento ancora come il diciannovenne che è arrivato a Guantánamo. In un certo senso, lì sono diventato maggiorenne: ho imparato a protestare contro la mia detenzione, a usare il mio corpo per lo sciopero della fame, a resistere. Penso spesso al periodo trascorso lì. Mentre i miei amici d’infanzia andavano all’università, si sposavano, trovavano lavoro e iniziavano la loro vita, io combattevo contro le guardie carcerarie che mi infastidivano mentre cercavo di pregare.
Nei primi giorni di Guantánamo, quando la prigione era ancora in via di sviluppo, in realtà era proprio ancora in fase embrionale, tutti noi avevamo delle domande: quando saremmo stati rilasciati? Perché gli interrogatori stavano diventando sempre peggio? Perché nessuno credeva a ciò che raccontavamo? Ma non eravamo gli unici ad avere domande. Anche le giovani guardie volevano sapere cosa stavano facendo lì, chi eravamo noi e perché alcuni leader dicevano che eravamo i peggiori tra i peggiori terroristi mentre altri leader ci chiamavano nullità o contadini.
Penso che Guantánamo stessa avesse le medesime domande. Penso che Guantánamo volesse sapere che tipo di posto sarebbe diventato, per quanto tempo sarebbe stato usato, se sarebbe stato utile.
Tortura, speranza, e resistenza
Tutti noi aspettavamo quelle risposte, anno dopo anno, man mano che crescevamo. Mi è cresciuta la barba e i capelli sono diventati grigi. Guantánamo si arrugginiva, si scrostava, si decomponeva; Camp X-Ray, il primo campo, era invaso da erbacce alte. Le guardie ruotavano così come i capi del campo. Le guardie che erano gentili con noi venivano spesso degradate o punite o lasciavano Guantánamo confuse per il conflitto tra il loro dovere ufficiale e ciò che sapevano essere giusto e sbagliato. Il generale Miller, l’architetto di ciò che gli Stati Uniti chiamano interrogatorio rafforzato mentre tutti gli altri chiamano tortura, andò in Iraq e ad Abu Ghraib. Alcuni prigionieri sono stati rilasciati. Alcuni – come Yassir (21 anni), Ali (26) e Mani (30) – morirono violentemente e misteriosamente durante la detenzione.
Gli anni passavano come i capitoli di un libro, e ad ogni nuovo capitolo pensavamo che le nostre domande avrebbero trovato risposte o almeno che i capitoli sarebbero cambiati. Ci furono nuovi inizi e nuove fasi, ma la storia rimase la stessa: gli interrogatori continuarono. Così come i trattamenti disumani e le vessazioni religiose.
Ogni capitolo si faceva più cupo, mentre perdevamo il contatto con le storie delle nostre vite prima di Guantánamo. Quando siamo stati portati a Guantánamo eravamo padri, figli, fratelli e mariti; avevamo famiglie, sogni e vite nel mondo esterno. Ma a Guantánamo eravamo solo numeri, animali in gabbia, completamente tagliati fuori dal mondo che conoscevamo; eravamo intrappolati in un ciclo infinito di interrogatori per farci ammettere che eravamo combattenti di Al-Qaeda o talebani. Abbiamo vissuto l’illegalità e gli abusi di Guantánamo, abbiamo visto Guantánamo crescere ed evolversi, mentre la nostra storia rimaneva bloccata.
Siamo diventati Guantánamo e così le nostre storie. Abbiamo resistito e protestato contro la nostra detenzione arbitraria e indefinita, abbiamo combattuto e fatto scioperi della fame per far sì che il mondo ci ascoltasse, vedesse la nostra sofferenza e conoscesse la nostra umanità. Abbiamo anche vissuto momenti di felicità, creatività e fratellanza. Abbiamo cantato, ballato, scherzato e riso. Abbiamo creato arte. Siamo diventati fratelli e amici, anche con alcune delle guardie e del personale del campo che ci hanno trattato come esseri umani. Abbiamo gradualmente perso i contatti con i nostri vecchi sé, finché Guantánamo è diventata la nostra vita, il nostro mondo, la nostra unica storia.
Mentre Guantánamo diventava più vecchia, più forte e più permanente, anche noi diventavamo più vecchi, ma più deboli, più fragili, ancora legati alle sue gabbie. Abbiamo saputo che alcune persone in tutto il mondo protestavano contro la nostra prigionia e le nostre torture e si battevano per la chiusura di Guantánamo. Questo ci ha dato speranza e ci ha fatto sentire che non eravamo stati dimenticati. Ma altri, come i politici al di fuori di Guantánamo, hanno imparato ad utilizzare questo carcere per creare le loro false storie, storie che si sono nutrite di noi per creare paura. Hanno mantenuto Guantánamo aperto.
La (non-) vita dopo Guantánamo
Verso la fine del mio periodo di detenzione, Guantánamo era diventato, per certi aspetti, più maturo e più aperto. Anche noi eravamo cambiati; avevamo ripreso i contatti con il mondo esterno. Abbiamo cercato di recuperare quelle parti di noi stessi che ci erano state tolte e perse. Ho frequentato corsi e creato arte. Ho imparato l’inglese e ho scritto storie su Guantánamo. Dopo 15 anni, temevo che non sarei riuscito a sopravvivere nel mondo esterno, una volta uscito. Sono cresciuto e sono diventato un uomo lì dentro. Guantánamo era tutto ciò che conoscevo. Era il luogo in cui si trovavano i miei amici.
Pensavo che andandomene sarei stato finalmente in grado di scrivere nuovi capitoli, che sarebbero cambiati e avrebbero avuto un buon finale. Avrei concluso la storia nel modo in cui volevo: Guantánamo sarebbe diventato solo un ricordo; sarei andato avanti, avrei frequentato la scuola, mi sarei sposato, avrei iniziato la mia vita. Ma la prigione non voleva lasciarmi andare. Mi ha sorpreso con una nuova storia.
Come me, centinaia di uomini sono stati rilasciati e sono usciti da Guantánamo. Alcuni sono tornati a casa nei loro paesi e dalle loro famiglie. Molti sono stati mandati in luoghi che non conoscevano: Uruguay, Kazakistan, Slovacchia. Io sono stato mandato in Serbia, dove non avevo né amici né famiglia e non parlavo la lingua. Abbiamo cercato di creare le nostre storie in questi nuovi luoghi, senza Guantánamo. Ma Guantánamo non ci lascia andare. Viviamo con lo stigma di essere stati detenuti lì.
Trentacinque uomini sono ancora lì. Il Presidente Biden ha lavorato silenziosamente per chiudere il campo di prigionia, ma senza la cooperazione del Congresso degli Stati Uniti, Guantánamo rimarrà aperto.
Da anni ormai, ex prigionieri, attivisti, avvocati e giornalisti lavorano per scrivere l’ultimo capitolo, il capitolo finale di Guantánamo, che si concluda con la giustizia, la responsabilità, la riconciliazione e la chiusura della prigione. Facciamo in modo che questo accada, in modo che tra un anno si possa scrivere una nuova storia sulla vita dopo Guantánamo.
Tradotto dall’articolo pubblicato dal The Guardian