La cattura del super latitante Matteo Messina Denaro, uno dei capi di Cosa Nostra, ha scosso l’Italia intera. Dopo una latitanza durata ben 30 anni, le forze dell’ordine lo hanno arrestato a Palermo mentre si trovava in una clinica privata per sottoporsi a cure importanti.
Condannato all’ergastolo per le stragi del ’92 in cui morirono Falcone e Borsellino e diversi uomini delle scorte, oltre che per gli attentati del ’93, Messina Denaro è stato uno dei criminali più ricercati d’Italia.
La storia di Messina Denaro è tragica e crudele. Tra i tanti omicidi attribuitigli c’è quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito, strangolato e sciolto nell’acido dopo due anni di prigionia.
La retorica istituzionale vuole che la cattura del boss di Castelvetrano sia la prova che “lo Stato ha vinto e la mafia ha perso”. Certamente la notizia dell’arresto è un punto positivo innegabile per l’attuale governo.
Eppure, è difficile non riflettere e avanzare dubbi a proposito della sua latitanza e del tardivo arresto che ha fatto scaturire molti interrogativi su potenziali protezioni e connivenze.
Da più parti si argomenta a proposito di un male in fase terminale di cui sarebbe affetto e che lo avrebbe convinto ad una resa concordata con lo Stato.
Ammalato, isolato, forse addirittura impoverito da tanti anni di latitanza, il mitico boss del mandamento della Sicilia occidentale avrebbe preferito passare il tempo che gli rimane da vivere senza più doversi nascondere.
Quello che potrà dire agli inquirenti è ormai roba vecchia, e l’establishment mafioso ha avuto tutto il tempo di limitare al minimo il danno della sua cattura.
La sua cattura, ormai simbolica, non rappresenta quasi nulla nella lotta alla nuova criminalità organizzata in Italia; forse placherà l’angoscia dei familiari delle sue vittime, ma è lungi dall’essere il segnale della fine della minaccia mafiosa che continua ad incombere, in forme nuove e inusitate su tutto il territorio dello Stato.