L’op-ed di Farid Hafez esamina la sua esperienza personale come vittima di una delle più grandi operazioni di polizia in Austria, chiamata Operazione Luxor. L’operazione, inquadrata come anti-terroristica, ha incluso oltre 100 imputati, tra cui leader della società civile musulmana e critici delle politiche discriminatorie del governo austriaco guidato dal Cancelliere Sebastian Kurz.
Hafez, che è un editore fondatore della rivista accademica “Islamophobia Studies Yearbook” e co-editore del “Rapporto Europeo sull’Islamofobia”, ha criticato queste politiche discriminatorie perché minano l’uguaglianza giuridica, la libertà religiosa e i diritti. Il suo lavoro accademico sull’islamofobia è stato citato come motivo per le accuse di terrorismo che gli sono state fatte. Egli descrive l’impatto traumatico che questa esperienza ha avuto sulla sua famiglia e su di lui, nonché l’effetto sulla sua immagine pubblica. Ecco il racconto di Hafez.
L’Austria ha ritirato le accuse di terrorismo nei miei confronti. Ma l’idea dei servizi segreti secondo la quale l’Islam politico è una grave minaccia rimane profondamente radicata.
L’operazione Luxor è stata la più vasta operazione di polizia effettuata in Austria dal 1945.
Prendendo di mira i presunti terroristi, oltre 100 imputati sono stati inclusi nelle indagini preliminari svolte contro alcuni leader della società civile musulmana e critici delle politiche discriminatorie messe in atto durante il cancellierato di Sebastian Kurz (2017-2021), politiche poi in gran parte annullate dai tribunali austriaci. Ed io sono diventato l’immagine di questa operazione.
Kurz, un tempo soprannominato il ragazzo prodigio dell’Austria e grande speranza di molti politici conservatori in tutta Europa, è diventato tristemente famoso per le sue politiche anti-islamiche. In nome della lotta all’Islam politico, il suo governo ha chiuso le moschee, ha vietato l’hijab ed ha istituito il Centro di Documentazione sull’Islam Politico per monitorare la società civile musulmana, al fine di rendere l'”Islam politico” un reato penale.
In qualità di editore fondatore della rivista accademica Islamophobia Studies Yearbook e di co-editore del Rapporto Europeo sull’Islamofobia, mi sono opposto a queste politiche criticandole in quanto si tratta di passaggi autoritari che minano l’uguaglianza giuridica, la libertà religiosa, la libertà di associazione e, più in generale, i diritti umani.
Ma poiché ero noto al pubblico come studioso, credevo ingenuamente che la mia libertà di espressione non potesse essere ostacolata in alcun modo. Almeno non nella misura alla quale ho dovuto assistere.
Quando, il 9 novembre 2020, alle 5 del mattino, le forze speciali della polizia austriaca hanno fatto irruzione nella mia casa di Vienna, mi hanno consegnato un mandato di perquisizione nel quale si affermava che potevo essere un terrorista con l’intenzione di rovesciare il governo egiziano e creare un califfato mondiale. Sono rimasto a dir poco sbalordito.
Le implicazioni sono state drammatiche e molteplici. Il raid ha traumatizzato tutta la mia famiglia, soprattutto i miei figli piccoli. Mi sentivo costantemente insicuro a causa delle intercettazioni telefoniche e di altre misure di sorveglianza. Il mio conto corrente e i miei beni sono rimasti congelati per due anni.
Ma soprattutto, mentre l’identità della maggior parte delle persone che erano state vittime dell’Operazione Luxor non è stata resa nota, l’attenzione mediatica mi ha trasformato nell’immagine pubblica che rappresentava tutti gli imputati.
Teorie del complotto
I sospetti e le accuse elencati nel mandato erano incredibili e un aspetto, in particolare, era molto interessante: il mio lavoro accademico sull’islamofobia era citato come motivo per le accuse di terrorismo che mi erano state affibbiate. Le relazioni periodiche dell’agenzia di intelligence che illustravano i motivi per cui venivo considerato una minaccia per la sicurezza si addentravano nel mio lavoro accademico sull’islamofobia, mettendolo in relazione con le teorie cospirative e sostenendo che il mio direttore cattolico alla Georgetown University di Washington fosse un convinto islamista.
Ma se da una parte la corte d’appello di Graz ha stabilito nel giugno 2021 che l’incursione nella mia abitazione era illegale – in linea con tante altre sentenze delle corti supreme che hanno annullato molte misure e leggi anti-islamiche, dalla chiusura delle moschee al divieto di indossare l’hijab, dall’altra non vi è stata alcuna volontà politica di fermare l’indagine.
Infine, la corte di giustizia (presso il tribunale regionale di Graz), che aveva autorizzato il raid illegale iniziale, ha emesso una decisione scioccante che ha confermato la continuazione dell’indagine contro di me, citando esplicitamente il mio lavoro accademico.
Secondo il tribunale regionale, le mie “attività svolte nella preparazione del cosiddetto Rapporto sull’Islamofobia e quella con l’Iniziativa Bridge dell’Università di Georgetown, hanno lo scopo di diffondere il termine da combattimento ‘islamofobia’ con l’obiettivo di impedire qualsiasi impegno critico con l’Islam come religione […] al fine di stabilire uno Stato islamico […]”.
Questo ragionamento non è nato dal niente all’improvviso, ma è stato lentamente e inesorabilmente introdotto nei corridoi del potere, a partire dai politici, dai servizi segreti e, infine, dai singoli avvocati.
“Esperti di estremismo” come Lorenzo Vidino sono stati determinanti nel sostenere che parlare di islamofobia fosse un mezzo usato dall’ “Islam politico” per promuovere una “narrativa di vittimismo”, come aveva scritto in un rapporto finanziato dallo stesso stato austriaco che è divenuto la base fondamentale per compiere la perquisizione e per far proseguire le indagini.
Quando gli è stato chiesto se fossero più pericolosi i jihadisti violenti o gli aderenti all’Islam politico, ha risposto alla Frankfurter Allgemeine Zeitung che era più pericoloso l'”Islam politico”, ampliando in tal modo il concetto di “contrasto all’estremismo violento” in “contrasto all’estremismo non violento”.
La follia
In questo senso, i servizi segreti hanno persino interrogato il preside della mia facoltà, chiedendogli se avesse mai pensato alla possibilità che io potessi influenzare gli studenti oltre che l’ambiente della facoltà.
In altre parole: hanno tentato di fargli riconsiderare la possibilità di continuare ad impiegarmi all’università. Questo è avvenuto dopo che io ero già emigrato negli Stati Uniti a seguito di altre minacce ricevute in Austria per il mio lavoro accademico.
Finalmente, la corte d’appello di Graz ha posto fine a questa incredibile follia. La corte ha preso la sua decisione finale dichiarando inequivocabilmente che la mia “partecipazione al dibattito sociale – anche quando si usano termini come ‘razzismo anti-islamico’ […] la corte d’appello non può riconoscere alcuna indicazione di una tendenza terroristica o anti-statale, l’appartenenza ad un’associazione terroristica o anti-statale o la propaganda a favore di tali associazioni e delle loro attività terroristiche”.
Questa decisione è coerente con altre sentenze, tra cui la decisione secondo la quale l’incursione stessa era illegale e che non c’era alcun reato penale su cui indagare in questa situazione.
Sebbene questa decisione rappresenti un sollievo personale, c’è ancora molto lavoro da fare per i servizi di intelligence austriaci allertati da esperti allarmisti che diffondono teorie cospirative per disegnare il quadro di una minaccia islamica immediata.
E, più in generale, l’élite politica austriaca deve domandarsi come vede il futuro dei musulmani nel paese, poiché costituiscono ormai il 9% della popolazione. Mentre la maggior parte dei partiti politici ha taciuto o appoggiato le politiche anti-islamiche, la famigerata Operazione Luxor è un’occasione ghiotta per ripensare l’approccio messo in pratica negli ultimi anni.
Traduzione di articolo pubblicato da Middle East Eye