La domanda sull’esistenza di altre forme di vita nel cosmo è una domanda antica quanto l’umanità stessa. Il cielo degli antichi era pieno di entità come gli spiriti degli antenati o altri esseri metafisici.
La nostra civilizzazione, a torto o ragione, ha poi svuotato il cielo da queste entità ma di recente la speranza o la paura di un cielo pieno ha ripreso piede in campo scientifico e filosofico.
Nel ricercare la domanda fisica sull’esistenza di altra vista nel nostro universo, il cui diametro stimato è di 90 miliardi di anni luce, una delle riflessioni più intriganti che ha dato filo da torcere agli scienziati ed ai filosofi è il paradosso di Fermi.
Il nome del paradosso deriva dal fisico italo-americano Enrico Fermi che durante una discussione informale con dei colleghi fisici si chiese “dove sono tutti quanti?” riferendosi alla tensione epistemica fra la mancanza di prove dell’esistenza di altra vita fuori dalla Terra da un lato e l’alta probabilità di esistenza di altra vita che alcune stime statistiche sviluppate dagli scienziati propongono alla luce delle leggi fisiche favorevoli alla vita, alla stessa esistenza della vita nel nostro pianeta, e alla vastità dell’universo con le sue innumerevoli stelle, galassie e pianeti.
Il nostro universo ha circa 14 miliardi di anni e molti scienziati credono che, essendosi la vita originata nel nostro pianeta, possa essere comparsa anche in altre parti dell’universo ed in una misura tale che possiamo aspettarci che altre civiltà si siano sviluppate aumentando la loro capacità tecnologica al punto tale da consentire il viaggio o almeno la comunicazione interstellare…ma noi ad oggi non ne abbiamo osservato traccia credibile.
Le spiegazioni sono varie: vi è chi propone che la vita sia effettivamente un evento estremamente raro anche con le leggi favorevoli del nostro universo, alcuni addirittura hanno ipotizzato che la vita sulla Terra potrebbe essere l’unica nell’Universo.
Un’altra linea di spiegazioni presuppone invece che vi sia altra vita nell’universo ma che questa, come naturale processo del suo sviluppo arrivi sempre al punto dell’autodistruzione: un grande filtro cosmico. Basti pensare ai diversi pericoli di estinzioni di massa che abbiamo evitato solo per un soffio dalla scoperta delle bombe nucleari.
Ancora altri propongono spiegazioni più sociologiche proponendo che l’esplorazione dell’universo non sia una priorità delle civiltà aliene più avanzate e che esse potrebbero preferire invece l’esplorazione di sé supportati da mondi simulati tramite computer super avanzati e da intelligenze artificiali.
Non sappiamo dunque quale opzioni sia effettiva, se il fatto che siamo soli nell’universo o che vi sia altra vita che guardando le stelle come facciamo noi incroci il nostro sguardo a nostra (e forse anche loro) insaputa.
A prescindere dalla risposta, la questione filosofica di come la risposta alla domanda summenzionata possa cambiare la nostra civiltà è molto interessante. Sapere che siamo completamente soli o che vi sia altra vita ci obbligherebbe a rivedere il nostro ruolo nell’esistenza e agirebbe come forte spinta opprimendoci con un senso di alienazione ineluttabile dai problemi del nostro pianeta, spesso causati dalla dimenticanza egoistica ed egotistica di vivere su un minuscolo pallino blu nella vastità del cosmo.
E forse è il risultato di ciò che ci spaventa di più. (Ri-) scoprire che nonostante la nostra piccola dimensione fisica, nel vasto mare dello spazio-tempo il fenomeno della nostra coscienza soggettiva sia grande, rilevante e di valore, e ricordare che è la nostra coscienza che da colore, forma, suono, odore e logica a un universo che senza coscienza alcuna non ne avrebbe.
Quello che ci spaventa di più non è forse scoprire se siamo soli o no nell’universo ma scoprire che il fondamento del cosmo sia una Mente e arrivare a temere le conseguenze di ciò più dell’oscurità in cui ci troviamo che potrebbe essere irta di alieni o di cosmica solitudine: la luce dietro l’oscurità.