Pregare la notte, interrompere il poco sonno per nutrirsi prima dell’alba, digiunare nelle ore del giorno quando si lavora, capovolgere per un mese i propri ritmi vitali per ritrovare l’essenziale, anche questo è Ramadan.
Un mese la cui disciplina ci porta ad una rivoluzione che più che fisica è invero spirituale, quindi di prospettiva. Il nostro sguardo da orizzontale diviene verticale, ovvero rivolto all’alto, al trascendente, all’Altissimo.
Il digiunante ama la fame e la sete, ama la fatica che compie per adorare e mostrare gratitudine al suo Creatore, quando il digiuno fosse troppo facile ne resterebbe deluso.
Tutto di questo mese contraddice lo spirito del tempo, siamo educati, indottrinati, esortati ad inseguire i beni materiali, il possesso, la ricchezza, l’accumulo e ci scopriamo felici nella rinuncia apprezzando l’assenza.
È un’assenza che sfama lo spirito, che ci libera dalle innumerevoli zavorre di cui ci carichiamo e ci permette finalmente di innalzarci, di essere più vicini a Lui e di conseguenza a noi stessi, nella nostra realtà originaria.
Emblematico di questo è che le immagini che usiamo per rappresentare Ramadan siano ingannevoli. Non sapendo parlarci dell’assenza, le immagini ci mostrano solo ciò che si può vedere, con il risultato paradossale che l’immaginario del mese benedetto è fatto di cibo e persone che mangiano.
Antoine de Saint-Exupéry ci ricorda che l’essenziale è invisibile agli occhi e noi siamo “coloro che credono nell’invisibile” per questo non dovremmo affannarci a rendere visibile un’adorazione che si realizza nel segreto del proprio intimo rapporto con il creatore ancor più sapendo che l’assenza di immagini sacre è un tratto distintivo dell’Islam.
L’uomo comprende con la mente e con il cuore ogni qualvolta entra in quell’immenso tempio che è il creato, comprende osservando i mari, gli astri, la vegetazione, gli animali e tutti gli altri innumerevoli miracoli che Dio ha messo a sua disposizione.
Ramadan è come un periodo di leva annuale, un momento di addestramento che rende tangibile come dovremmo essere, fissa uno standard al quale dovremmo aspirare. Dimentichiamo con facilità, ma il digiuno di ramadan infonde in noi un’imperitura disciplina.
Ancora a contraddire lo spirito di un tempo in cui ogni capriccio è diritto, in cui non si menziona il dovere ed ogni sforzo è volto alla rincorsa dei beni materiali, un tempo in cui il guru, il maestro, è colui che ti insegna a far soldi e muscoli.
Ramadan non è una festa, è adorazione e disciplina, purificazione e gratitudine, per questo è necessario contrastare due derive che stanno prendendo piede tra i musulmani, la prima consiste nella sua commercializzazione e la seconda nel processo di annacquamento: sempre più quella che è un’adorazione fatta di sacrificio e sobrietà viene trasformata in un’occasione di consumo.
Sappiamo bene come in molti paesi arabi durante Ramadan aumenti a dismisura il consumo di cibo e ogni sera divenga l’occasione per banchetti e festeggiamenti col paradosso che ciò che è astensione e introspezione, spirito e non materia, diviene ingordigia e ostentazione.
Noi musulmani d’Occidente ben sappiamo come qui siano rimasti i festeggiamenti del Carnevale e della Pasqua senza che in mezzo vi sia il digiuno della Quaresima, come siano rimasti i regali sotto l’albero di un Natale spogliato del senso del sacro. Il diffuso e sostanziale ateismo ha svuotato di significato ogni ricorrenza e l’ha data in pasto al consumismo. Questo fino ad ora con il Ramadan non è avvenuto, ma ci sono segnali da non sottovalutare.
Questo dono così difficile da spiegare a chi non lo vive va preservato nelle sue caratteristiche, ha regole chiare che però delegano molto alla coscienza individuale, cosa che fa del digiuno una relazione intima e imperscrutabile del credente con il suo Creatore.
Un mese di grazia e benedizioni, colmo di occasioni di misericordia e perdono uniche per il credente. Preservarlo in quanto dono significa anche non annacquarlo, cedendo alle pressioni di società secolarizzate che non sono più in grado di comprendere qualsiasi sacrificio in nome di Dio.
Negli ultimi anni abbiamo infatti osservato come si sia fatto sempre più ricorso a fatawa che permettono di non digiunare a diverse categorie di persone, come ad esempio gli studenti che si preparano per gli esami o i calciatori professionisti che devono giocare, come se il digiuno fosse un affare per disoccupati e pensionati.
In questo modo evidentemente si snatura il senso stesso del digiuno: mettere Dio al di sopra di tutto, sacrificare un’inezia in segno di riconoscenza verso l’impagabile dono della vita, educarci a superare le avversità con pazienza e tenacia. Tutto ciò viene contraddetto nel momento in cui si afferma che una partita di calcio è più importante o che un giovane studente in salute non sia in grado di affrontare il digiuno.
Oggi pensare che i siriani e i turchi che hanno appena vissuto la tragedia del terremoto e vivono ancora nei container fremono per l’arrivo di questo mese benedetto dovrebbe farci riflettere e anche un po’ vergognare.
Ramadan in sintesi è un mese di riscoperta interiore e rivoluzione esteriore in quanto la sua portata non afferisce solo alla nostra spiritualità, anzi il suo insegnamento informa la nostra cosmovisione, venendo a riaffermare e riordinare le priorità proprio come la rivelazione che in questo mese ebbe inizio.